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Quella di Littell è "Una vecchia storia" (ma la nuova versione è peggio)

Ciò che funzionava ne «Le benevole», qui annoia. Meglio la prima edizione

Quella di Littell è "Una vecchia storia" (ma la nuova versione è peggio)

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Quando nel 2006 uscì il romanzo Le benevole di Jonathan Littell fu un successo e anche uno scandalo. Chi lo elogiò, capendo che si trattasse di un capolavoro, chi lo stroncò, perché come tutti i grandi romanzi rompeva un tabù. Uno dei punti cruciali era il nazismo, o meglio il protagonista, Maximilien Aue, che diventa un ufficiale delle SS e partecipa all'Olocausto. Colpì la rappresentazione del personaggio, in cui chiunque poteva identificarsi, e il messaggio di fondo: chiunque di noi avrebbe potuto essere un nazista.

Di contro, tuttavia, qualcuno criticò la sessualità ambigua di Aue, omosessuale e molto promiscuo, perché se doveva essere un uomo qualsiasi, perché rappresentarlo così, un uomo eccezionale, non comune? Per rappresentare la straordinarietà dell'ordinarietà bisogna spingere all'estremo l'ordinarietà, come sanno scrittori come Philip Roth o Richard Ford, ma già da Balzac e Flaubert in poi.

In qualche modo la risposta è in un altro libro di Littell, Una vecchia storia, di cui adesso esce in Italia per Einaudi una riscrittura, sottotitolo appunto «una nuova versione». I due capitoli della prima versione sono diventati sette, e la voce narrante entra e esce da una piscina a ogni inizio e fine capitolo trovandosi nelle situazioni più disparate, che per lo più hanno a che fare con il sesso, la guerra e l'amore. Sono temi già presenti ne Le benevole, ma assolutizzati, decontestualizzati, destoricizzati, esistenzializzati.

E così, innumerevoli descrizioni di atti sessuali del narratore, con ogni persona e con ogni sesso, passaggio dal maschile al femminile, travestitismo (però niente di che, ricordano più Cinquanta sfumature di grigio che De Sade), misteriose scene di ordinaria quotidianità più o meno inquietanti, episodi di guerra, tortura, ribellioni a un regime non meglio precisato. È come se Littell avesse messo in campo solo le tematiche essenziali, la carne, l'oppressione, le emozioni, la paura, la rabbia, il desiderio, in un mondo kafkiano, beckettiano. E in parte ci riesce, in parte no. Forse perché per essere kafkiani e beckettiani bisogna essere Kafka o Beckett, o almeno Thomas Bernhard, mentre qui dopo cinquanta pagine si comincia a sbadigliare.

Non per altro il libro è stato per lo più ignorato. Quello che funzionava ne Le benevole qui annoia, probabilmente perché Littell è un autore che dà il meglio di sé con una trama e un contesto storico precisi, mentre per fare il salto verso l'assoluto ci vuole altro. Malgrado la dichiarazione di intenti dello stesso scrittore, più che chiara: «Non faccio distinzione tra descrivere una scena di sesso, una scenetta familiare e un'azione di guerra. L'uomo bacia, mangia, dorme, caga. Fare l'amore non è una cosa eccezionale. Gli uomini fanno sempre le stesse cose». Verissimo. Ma tra un tuffo in piscina e l'altro si annoiano anche.

Insomma, come spesso succede in letteratura, le prime versioni sono sempre le migliori.

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