Cultura e Spettacoli

"L'opera interminabile" di un formidabile genio contiene tutto il mondo

Da Kiefer a Hirst passando per Pamuk e Björk. La buona arte del XXI secolo è epica

"L'opera interminabile" di un formidabile genio contiene tutto il mondo

T ra il 2002 e il 2003 scrissi un romanzo dal titolo Tornavamo dal mare, uscito l'anno successivo per Garzanti, in cui si parlava dell'epoca del terrorismo italiano. Molte verità dovevano ancora essere scoperchiate, ad esempio sull'affaire Moro, tuttavia ritenevo - questo pensai, con queste precise parole - che fosse trascorso «abbastanza tempo» per poter ripensare con un po' di serenità a tutto il dolore che quegli anni avevano prodotto in ciascuno di noi e, di conseguenza, alla ferita che avevano prodotto nel Paese.

Ma le ferite della storia, quelle vere, sono tutte immedicabili, le cicatrici restano e non guariscono del tutto. Il tempo non le cancella, al massimo ci aiuta a pensarle, a capire qualcosa nel caos che rimane.

Questi nostri anni non sono più come il 2003: a differenza di allora, oggi non c'è più «abbastanza tempo», quel margine non c'è più, o forse c'è ancora ma occorre molta fortuna, oltre a un enorme coraggio, per ritrovarlo. Freud sarebbe un ospite di Bruno Vespa, tra gli altri.

L'oggi chiama l'oggi, il passato è icona, modello, immagine di repertorio, ispira pensieri standard, ma la partita si gioca qui. La memoria perde pezzi, l'impegno col presente è precario, incerto. Migliaia di persone si accalcano alle mostre d'arte e la maggior parte di loro non sa perché. La chiamano post-verità, termine odioso e ipocrita. Chiamiamolo piuttosto preterintenzionalità. Si fa una cosa perché la si fa, si pensa una cosa perché la si pensa. Tolta la memoria, il processo è inevitabile.

A spingermi su questi pensieri drammatici ma vitali è la fresca lettura del libro L'opera interminabile, ultima fatica di Vincenzo Trione (Einaudi, pagg. 588, euro 40). Una grande passeggiata in compagnia di artisti visivi (Kiefer, Hirst, Boltansky, Kentridge, Greenaway), ma anche scrittori (Pamuk, Balestrini), cineasti (Iñárritu, Parreno), musicisti (Bjork) non con la pretesa di proporli come modello (ciascuno può sostituire i loro nomi con altri nomi) ma per offrirci un criterio di cui, oggi, c'è bisogno. La riduzione di mostre e musei a una sorta di luna park - perché così è - ci dice una cosa: che il nostro rapporto con il passato è guasto, ma che il guasto è qui, ora: nel nostro rapporto con il presente, con la contemporaneità.

Il sottotitolo merita attenzione: Arte e XXI secolo. Non del ma e. A marcare, cioè, un punto di distanza, un cambio d'epoca. Trione non pretende di dirci come sarà l'arte negli ottant'anni di XXI secolo che aspettano i neonati del nostro tempo, ma piuttosto di segnare i mutamenti genetici di un'attitudine che giunge all'opera d'arte ma che non comincia dall'opera d'arte: comincia da un mondo, il nostro, del quale facciamo fatica a rintracciare la vera immagine. Perché la vera immagine non si dà in automatico, non è uno spot Mercedes e nemmeno una mostra di Picasso: va cercata, conquistata.

A questo servono gli artisti: a smentire qualcosa che ci appare come «dato».

Trione non ci chiede di essere d'accordo con lui, non offre tesi indiscutibili (per fortuna). Ci chiede di essere ascoltato, di compiere un pezzo di strada con lui in un museo non «immaginario» ma «dell'immaginario», che è come il modello futuro del museo che ognuno di noi è chiamato a costruire nel proprio rapporto con l'arte e nella funzione reale dell'arte.

Alcune osservazioni nascono da questa lettura.

Prima osservazione. Si parla molto - ed è forse ciò che maggiormente accomuna gli artisti presentati - di «opera-mondo». Le opere descritte in questo libro appassionato ne adombrano molte altre (anche a un mio libro è stato dato questo appellativo) a formare una specie di famiglia. L'opera-mondo è sempre il tentativo di salvare, o comunque di scoprire, la frattura che c'è tra noi e la rappresentazione di noi che ci viene dal passato (rileggere, a questo proposito, il fondamentale saggio di Heidegger, L'epoca dell'immagine del mondo, in Sentieri interrotti). Musei e mostre oggi sono, spesso, il sintomo di questa sconnessione.

Seconda osservazione. Se questo libro si lega, come credo, al precedente di Trione Effetto città, allora è d'obbligo che la città stia al centro del processo descritto, che deve essere abbracciato dalla città, confluire in essa, nel suo cuore. Londra sta compiendo questo travaso, New York forse, Milano non ancora. Qui è ancora il centro a dettare la periferia, ed è tempo che la periferia inizi a rimodellare (senza violarlo) il centro.

Terza osservazione. Il museo «vero» non è individuale, è personale ossia relazionale. I luoghi deputati perdono (o cambiano) di senso, restano viceversa i luoghi destinati, ossia noi stessi ma non chiusi nelle mura dell'io, bensì disponibili ad essere attraversati da ciò che mette in discussione quelle mura, vi apre brecce. L'arte è fatta di questo, celebra il mondo fuggendo da esso, e ci parla della morte come di qualcosa a cui è lecito pensare. Ci aiuta, se abbiamo pazienza, a essere quello che siamo e che, probabilmente, non sappiamo di essere. «Tutta la musica è sacra», diceva Igor Stravinskij. Ecco, la mia impressione è che Trione dica qualcosa di simile a proposito dell'arte: non esiste arte sacra e non sacra, perché «arte» e «sacro» sono, probabilmente, sinonimi. Non è religione, è una dimensione antropologica.

La scrittura di Trione è coraggiosa e ingenua. Se sia letteraria o meno, come dice Pamuk, poco importa. Si nutre senza paura di quello che sa e non teme quello che non sa; esibisce pieni e vuoti; mette in campo intelligenza e limiti non evitabili quando si vuol parlare di opere-mondo attraverso un'opera-mondo; travolge i propri oggetti con un fiotto di necessità che oltrepassa lo specifico (arte/musica/cinema/letteratura).

Trione, contemporaneista di fama internazionale, ci appare qui, in filigrana, come un vero conservatore, nipote di Marc Fumaroli e (con qualche distinguo) di Jean Clair. Conservare non è mettere l'arte sotto teca, producendo un'ammirazione spesso ipocrita, senza apprendimento, senza crescita umana.

Conservare vuol dire stabilire, giorno dopo giorno, il corretto rapporto col passato, le sue ferite (che rimangono) e, al di là del passato, con tutto ciò che genera in noi questa cosa strana, sorprendente, per nulla scontata che chiamiamo «umanità».

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