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"L'orrore è lavare la tuta di chi si calava nella foiba piena di corpi"

La testimonianza inedita di un militare. Nel '43 collaborò con le squadre di recupero

"L'orrore è lavare la tuta di chi si calava nella foiba piena di corpi"

«L'orrore ricordo l'orrore nei racconti dei miei compagni, che si infilavano nella foiba per recuperare i poveri corpi. Spesso per metterli nelle casse si smembravano. Le vittime italiane dei partigiani di Tito, in gran parte civili, avevano i polsi stretti dal filo di ferro. Ed erano stati legati uno all'altro per gettarli nel buco ancora vivi sparando solo al primo, che faceva precipitare gli altri». Sembra che sia accaduto ieri nel lucido racconto di Giuseppe Comand, 97 anni. Nel 1943 ne aveva poco più di venti quando gli fu ordinato di aiutare i vigili del fuoco di Pola, che recuperavano gli infoibati nella prima ondata di rappresaglia titina grazie al vuoto di potere provocato dall'8 settembre e dallo sbandamento dell'esercito italiano. Comand, friulano doc, tira fuori il suo diario di quelle giornate terribili, che non ha mai pubblicato. Probabilmente è l'ultimo testimone vivente della riesumazione dei primi infoibati italiani dell'Istria, che poi sarebbero diventati migliaia alla fine della Seconda guerra mondiale in tutta la Venezia Giulia compresa Trieste. Soldato dell'11° reggimento genio di Udine, durante la guerra, ha contattato il Giornale per raccontare come «tiravano fuori i morti». E l'epopea dell'8 settembre con il rischio di finire nelle mani dei partigiani di Tito o deportato in Germania dai tedeschi. Una testimonianza per non dimenticare la tragedia delle foibe, ma pure di una guerra senza pietà alla vigilia del Giorno del Ricordo degli istriani, fiumani e dalmati cacciati dalle loro terre da Tito.

Nel 1943 come venne a sapere delle prime foibe?

«Dopo l'8 settembre la mia unità fu disarmata dai tedeschi a Pola. Il comandante riuscì a fare aggregare una squadra, compreso il sottoscritto, come prigionieri di guerra, ai vigili del fuoco locali, che dovevano recuperare i corpi. Non sapevo neppure cosa fosse una foiba. Quando a Pisino mi dissero che si trattava di profonde cavità piene di morti italiani scaraventati dentro dai partigiani, mi sembrò di impazzire. Io non mi calo nella foiba, piuttosto sparatemi. Non me la sento di fare il becchino di questi poveri disgraziati».

E cosa accadde?

«Ero il più giovane a soli 23 anni e mi esentarono dall'infilarmi nella foiba, ma i miei compagni dovettero farlo e mi raccontarono l'orrore. Oggi, purtroppo, non ci sono più. Il primo a calarsi dentro la foiba di Vines, vicino ad Albona, fu Arnaldo Harzarich, maresciallo dei vigili del fuoco di Pola. All'imbocco venne costruita una struttura in legno per la carrucola e lo calarono con una specie di seggiolino da giostra».

Cosa trovarono nella foiba?

«I primi morti, sette se non ricordo male, si erano fermati ad uno sbalzo di roccia a circa 70 metri di profondità. Le altre decine precipitarono fino sul fondo per circa 120 metri (72 italiani comprese 6 donne e 12 militari tedeschi, nda). Il maresciallo raccontava che era terrificante e sembrava di calarsi all'inferno. L'odore della putrefazione era così forte che si sentiva a chilometri di distanza. Il problema era recuperare i corpi straziati tenendoli il più possibile intatti. Nella foiba calavano le casse da morto in legno, ma i cadaveri si frantumavano e non era facile riportarli in superficie».

Una riesumazione fu più terribile delle altre.

«Il fatto più raccapricciante capitò ad Harzarich (nella cavità di villa Surani, nda). Con il raggio della pila illuminò il corpo di una ragazza seminuda, che sembrava seduta sul fondo della foiba con la schiena appoggiata alla parete e la testa rivolta verso l'alto, come se sorridesse. Si trattava di Norma Cossetto, la studentessa istriana, torturata e violentata dai partigiani prima di venire infoibata».

Le vittime come venivano scaraventate nell'abisso?

«La gente del posto e soprattutto le due ragazze che ci facevano da mangiare mi raccontarono i dettagli del calvario degli italiani, compresi due loro fratelli infoibati. Nel caos dell'8 settembre il castello di Pisino, nel centro dell'Istria fu usato come prigione, dove le vittime italiane venivano sommariamente processate dai partigiani comunisti e condannate a morte. A molti disgraziati, prima di venire infoibati, legavano gli avambracci con del filo di ferro ruggine stretto fino all'osso grazie a pinze e tenaglie. Poi li costringevano a salire su una corriera rossa che li portava davanti alla foiba. Sembra che sparassero solo al primo per far precipitare gli altri ancora vivi. Il macabro rito si chiudeva con il lancio di un cane sopra i corpi per una superstizione slava sui morti».

Chi erano gli infoibati?

«Italiani soprattutto civili e militari (anche tedeschi, nda) fatti prigionieri. Nella foiba di Vines venne trovata pure l'ostetrica di Albona. Sembra che molti anni prima fosse morto un nascituro ed il padre si è vendicato».

Come furono riconosciuti i cadaveri?

«L'odore terribile attirò dopo pochi giorni i familiari, che trovarono la famosa foiba di Vines. I miei compagni si calarono con delle tute in gomma di Marina, guanti fino al gomito e autorespiratori con le bombole sulla schiena. Si poteva resistere appena 30 minuti. Prima di iniziare l'operazione li costringevano a bere diversi sorsi di cognac per sopportare l'orrore. I corpi riesumati venivano allineati sul prato ed i parenti turandosi naso e bocca con i fazzoletti, per l'odore terribile della putrefazione, cercavano di riconoscere il congiunto fra scene strazianti di dolore e pianto. I volti erano quasi sempre consumati, ma il riconoscimento avveniva grazie ai denti, i resti dei vestiti o un pettinino».

Lei cosa faceva?

«Recuperavo altri cadaveri sotto le macerie soprattutto a Pisino e alla sera lavavo le tute di chi si calava nelle foibe. Non me lo dimenticherò mai».

L'odissea è iniziata l'8 settembre 1943?

«Sinceramente non me ne importava nulla della guerra. Come perito agrario mi avevano assegnato a mansioni d'ufficio alla base del genio vicino a Fiume, oggi la croata Rijeka. L' 8 settembre uno dei commilitoni si mise a gridare: Una grande notizia, la guerra è finita. Subito dopo andai al comando e dietro la scrivania del colonnello era seduto il capo dei partigiani, il figlio di Marco, l'oste del paese. Mi offrì di scappare con abiti borghesi, ma gli dissi che non potevo tradire i miei compagni».

Il reparto cosa fece?

«Armi in pugno ci dirigemmo verso Pola cercando di evitare i tedeschi. Ad un certo punto il mio camion si guastò ed i partigiani ci circondarono. Uno mi puntò il fucile a distanza ravvicinata ed io la pistola alla pancia dicendogli: Se spari lo faccio pure io. Alla fine riuscimmo a proseguire».

Per poi finire nelle mani dei tedeschi...

«A Pola ci intimarono di consegnare le armi e di levare le stellette. Al momento della resa un capitano impugnò la pistola. Gli gridai no, non lo faccia. Lui rispose: Non posso assistere a quello che accadrà. E si sparò. Tanti soldati furono deportati in Germania, ma la mia squadra finì a riesumare le vittime dei partigiani.

Nel novembre 1943, grazie a documenti falsi, tornai a casa, ma non ho mai dimenticato le prime foibe».

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