Manicomi, «art brut» e nuovi linguaggi La magia di Dubuffet

Francesca Améda Riehen (Basilea)Come ogni persona pratica e metodica, Jean Dubuffet subiva il fascino dell'inaspettato. Normanno di Le Havre, nato nel 1901 in una famiglia di commercianti di vini, è tra gli artisti più dirompenti della sua generazione. Da vero outsider - girava i manicomi del Dopoguerra per osservare i quadri dei pazienti, ma era altresì oculato nel gestire i propri affari - ha influenzato personalità come Claes Oldenburg, Keith Haring, Jean-Michel Basquiat. E, per loro ammissione, Miquel Barcelò e Ugo Rondinone.«L'arte non viene a coricarsi nei letti preparati apposta per lei», diceva osservando i lavori fuori da ogni regola dei pazienti degli ospedali psichiatrici di Ginevra e Berna e coniando la celebre espressione «art brut». Affascinante - perché anticonvenzionale - appare la sua produzione, in mostra ora alla Fondation Beyeler di Basilea in un'ampia retrospettiva curata da Rafaël Bouvier («Jean Dubuffet. Metamorfosi del paesaggio», fino all'8 maggio, www.fondationbeyeler.ch): una sorta di ritorno a casa, ché lo schivo Dubuffet deve proprio al gallerista elvetico Ernst Beyeler la sua fortuna tra i collezionisti europei. Artista-geologo, Dubuffet: il suolo è al centro della sua attenzione («tutto è paesaggio», diceva) e con il suolo realizza gran parte della produzione. La tavolozza è, specie nei periodi di permanenza nel sud della Francia, improntata ai toni della terra e di terra, semi, sassolini sono fatte le sue paste tattili, tele da osservare da vicino, per capirne appieno la complessità. Negli anni '50 - a dimostrare quanto arti-star come Damien Hirst gli siano debitori - assembla su tela ali di farfalla: ne escono paesaggi falenici, una riflessione sulla vita e sulla morte che va di pari passo con una scultura aliena ai materiali tradizionali quali marmo o bronzo. Dubuffet usa invece spugne di mare, legno, pietre laviche per opere piccole di formato, potenti nell'impatto. L'ex commerciante di vini dalla vita regolare seziona ossessivamente non solo la natura, ma anche i propri dipinti: taglia le tele e le ricompone, crea assemblaggi che lasceranno il segno in tanti dopo di lui, a partire da Matisse.È una successione di sorprese, la produzione di Dubuffet: non appena ci si abitua a una cifra stilistica, cambia il ritmo. E così, dopo sculture naturali e paesaggi simili a composizioni infantili, la vita a Parigi ispira una serie di lavori metropolitani: Paris Circus è un calderone colorato e irriverente, una fucina di stimoli cui attingeranno, per toni e gestualità, Haring e Basquiat. Ma nemmeno il paesaggio urbano soddisfa l'ansia di altrove: negli anni '60 Dubuffet inventa «l'Houroupe», un neologismo privo di senso che collega dipinti, lavori grafici e sculture in polistirolo costruite a partire dagli scarabocchi che fa parlando al telefono. È la celebrazione dell'artificio e ha l'acme nel lavoro di arte totale Coucou Bazar allestito alla Fondazione in una sala molto scenografica con manichini rossi, blu, bianchi e neri animati da attori. Questo spettacolo di danza, musica e arte andò in scena per la prima volta al Guggenheim di New York nel '73 e alla Fiat di Torino per volontà di Gianni Agnelli nel '78.«Eccomi alla fine stanco di tutte le immagini istituite», scrive un Dubuffet debilitato dalla malattia che lo porterà, a 85 anni, al suicidio.

L'ultima sala ospita la serie Non-lieux, non i non-luoghi postmoderni alla Marc Augé, ma i recessi della mente: sono quadri su fondo nero, non rappresentano nulla se non l'atto del pensiero. Negli anni '80 Dubuffet si addentra nei labirinti dei paesaggi mentali e apre una strada ancora tutta da percorrere.

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