In una delle ultime interviste nella quale ripercorreva la propria biografia e le proprie idee e formulava giudizi sulla storia e sulla politica italiane, Manlio Cancogni (nato il 16 luglio 1916, esattamente cento anni fa, e morto nel settembre 2015), voce tra le più autentiche della nostra letteratura contemporanea, dichiarò di non essere mai stato "crociano o comunque storicista". Ma aggiunse che, da "cristiano" praticante e "cartesiano" convinto, aveva maturato qualche ripensamento di fronte alla sorte toccata al grande filosofo: "Durante il fascismo c'erano il Duce e il contro-Duce, che era Croce. In quel periodo non lo amavo. Poi dopo la guerra è stato abbandonato da tutti ed è allora che ho sentito un grande rispetto per lui. Mi dispiacque quando morì. Neppure i suoi discepoli più fedeli, a parte qualche raro caso, hanno avuto il coraggio di riconoscere quanto gli dovevano. Fu emarginato: ha pagato più lui da liberale antifascista che tanti fascisti con tessera poi riciclatisi in tutti i partiti, moltissimi nel Pci. E comunque è stato l'ultimo vero grande intellettuale italiano. Dopo di lui la cultura è stata il festival della fregnaccia irregimentata".
In queste parole, al di là della contingenza, c'era tutto Cancogni con il suo spirito ironico e indipendente, con il suo gusto un po' toscano di muoversi controcorrente, con il suo rispetto per la cultura autentica e priva di etichette, con il suo coraggio intellettuale. Un esempio di questa indipendenza lo dette quando, all'indomani dell'attentato contro le torri gemelle a New York, il suo editore dell'epoca pubblicò un instant-book nel quale si farneticava di una operazione costruita a tavolino dagli stessi americani. Egli non esitò un solo momento a rompere i rapporti con la casa editrice che aveva avviato un piano di pubblicazione di tutte le sue opere.
Cancogni era un uomo libero ovvero, se si preferisce, un liberale nel senso più autentico del termine. Non un liberale di partito, ma uno spirito liberale che mal sopportava le imposizioni della politica e i diktat del politicamente corretto. Uno dei romanzi più noti e più belli di Cancogni, quel Azorin e Mirò, uscito nel 1948, offre una chiave di lettura proprio in questo senso. Quel testo nel quale è ben adombrata, sia pure sottilmente, l'amicizia fra l'autore e Carlo Cassola ci presenta, nella Roma del fascismo trionfante e della guerra, i due protagonisti, scrittori giovanissimi e uniti da idee comuni, diffidenti nei confronti del politicamente corretto dell'epoca, cioè la letteratura eroica e retorica: "Non amavano né il tragico né il grandioso" e "se un libro offriva interessi morali, sociali, o politici, il loro disgusto non aveva limiti".
Nato a Bologna per caso, Cancogni era un toscano purosangue, innamorato della Versilia. Ricordo con un pizzico di nostalgia un lontanissimo incontro, erano i primi anni Ottanta, a Yale in occasione di un convegno dannunziano e la sua cordialità nei confronti di un giovane studioso. A quell'epoca, lui viveva già negli Stati Uniti dove si era trasferito da tempo per insegnare all'Università. La sua fama di scrittore era largamente riconosciuta. Molti decenni erano trascorsi da quando aveva cominciato a pubblicare i primi racconti su Il Frontespizio e Letteratura. Poi c'era stata la grande parentesi giornalistica, iniziata con il quotidiano La Nazione del Popolo, organo del Comitato toscano di liberazione nazionale, e proseguita sulle più importanti testate quotidiane e periodiche per approdare al Giornale di Montanelli dove pubblicò anche alcune splendide rievocazioni storiche in più puntate. E, infine, c'erano stati i suoi romanzi, tanti romanzi che gli erano valsi riconoscimenti importanti come i premi Bagutta, Viareggio e Strega: romanzi scritti in una prosa apparentemente dimessa e, per certi versi, crepuscolare che si caratterizzava per la sua eccezionale eleganza stilistica e per il suo nulla concedere alla moda o alla deriva di quel neorealismo letterario che si era affermato nell'immediato dopoguerra e che era poi degenerato nella letteratura cosiddetta impegnata. Di quell'incontro con Cancogni ricordo poco se non la sua sensibilità per la Storia. Una sensibilità che, combinata con la dimensione più o meno autobiografica, mi ha sempre colpito e che, ne sono convinto, rappresenta la caratteristica centrale della sua narrativa. Certo, Cancogni non è mai stato, né ha preteso di esserlo, uno storico nel senso pieno del termine, anche se fu autore di libri di storia, spesso derivati dall'attività giornalistica, come, per esempio, la Storia dello squadrismo (1959), Il Napoleone del Plata (1970), Gli angeli neri: storia degli anarchici italiani (1994) o, ancora, quel delizioso L'ultimo viaggio di Mussolini (2008), che pubblicai proprio io dopo avere da lui avuto il consenso. In quest'ultimo sapido saggio c'era un'acuta valutazione psicologica dell'uomo Mussolini, il quale, pur senza rendersene conto, come "un provinciale sempre in ritardo", con uscite destinate soprattutto "a fare colpo" e con professioni di fede socialista che evocavano un socialismo "più vicino a Edmondo De Amicis che a Carlo Marx". E c'era, pure, una ironica e demistificante istantanea del mondo di Salò, "una repubblica di sognatori, schiavi di fantasie morbose e crudeli, o, come diremmo oggi, di vitelloni, cui piaceva discorrere, riempirsi la bocca di grandi frasi".
Ma se non fu uno storico, Cancogni fece della storia la trama privilegiata della sua narrativa. Opere come La linea del Tomori (1965), ambientato durante la guerra d'Albania, o Il ritorno (1971) sulla ritirata dei corpi militari italiani dopo l'8 settembre, o, ancora, Le leonesse (1982), romanzo epistolare sull'entourage di Galeazzo Ciano alla vigilia dell'entrata in guerra dell'Italia, sono prove letterarie di altissimo livello che aiutano, pure, a comprendere le vicende dell'Italia contemporanea e a misurare il peso della Storia sui destini individuali. Non fa eccezione l'ultimo suggestivo romanzo, Il trasferimento, pubblicato postumo lo scorso anno da Elliot, ambientato nella Libia degli anni Trenta: un romanzo, breve ma incisivo, nel quale, attraverso gli occhi di un funzionario ministeriale di tiepida fede fascista scorrono intrighi tipici di una realtà coloniale nella quale convivono le autorità italiane con capi ribelli, religiosi fanatici, individui ai margini della legalità.
Cancogni ha costruito i suoi romanzi inserendo vicende e personaggi di fantasia in un tessuto storico reale che privilegia i momenti più drammatici della storia d'Italia.
E lo ha fatto proponendo una sua visione, per certi versi tragica e pessimistica della Storia, che recupera la tematica dell'eterno conflitto tra civiltà e barbarie insieme, soprattutto nelle ultime opere, al recupero della spiritualità e della fede. Sotto questo profilo, la sua narrativa è una testimonianza del Novecento. E della sua tragica storia.
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