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Meglio avere il coraggio di mettersi a frugare nelle tasche dell'anima

Il testo più difficile da leggere siamo noi stessi. Ci aiutano i segni del tempo e non la memoria

Meglio avere il coraggio di mettersi a frugare nelle tasche dell'anima

Il testo più difficile da leggere siamo noi stessi, e non certo perché sia una cosa difficile. Anzi, è fin troppo facile.

Non è necessario essere psicoanalisti per capirlo. Basterebbe compiere, una volta ogni tanto, gesti semplici e domandarsi cosa ci insegnano. Come andarsi a rileggere, per esempio, quello che abbiamo scritto nelle nostre chat (tutte, però) su whatsapp nell'ultima settimana.

L'anno e mezzo che abbiamo passato avrebbe dovuto sbalzarci dalla nostra comfort zone, dove ci sentivamo ben saldi sul trono del nostro piccolo impero «formato cranio» (come disse D. F. Wallace). Ma è anche vero che in certi frangenti pericolosi si è portati a reagire stringendo ancora di più i denti e tirando avanti come se niente fosse successo.

Il fatto è che, vivendo istante per istante al centro di noi stessi, noi in qualche modo ci astraiamo dal tempo. Quello che abbiamo detto due anni, o un mese, o cinque minuti fa non esiste più, perché noi non siamo più lì, o così crediamo.

Per questo è un bene tutte le volte che qualcosa riporta al presente il nostro passato - e non intendo il ricordo, che è l'opposto di questo, che è un viaggio dentro il passato, spesso allo scopo inconsapevole di addomesticarlo - fare bene attenzione, appuntarlo.

Come dicevo, proviamo a leggere tutto quello che abbiamo scritto per esempio su whatsapp nell'ultima settimana ai diversi indirizzi. Al centro dei social c'è la conversazione privata: chi li ha inventati doveva avere in mente questo.

Basta salire su un autobus e contare coloro che non stanno armeggiando con lo smartphone: otterremo un numero molto vicino allo zero. La chat crea infatti un margine di sicurezza che permette di dire cose che in una conversazione normale non si direbbero. Non che non passino anche comunicazioni importanti, ma quelle importanti passano anche altrove, mentre altre passano soltanto qui. Lo si capisce da certi sorrisi delle donne, tra il lusingato e l'imbarazzato per qualche complimento ricevuto, per qualche gentilezza magari non del tutto legittima.

Forse tutti abbiamo bisogno anche di questo, forse ha ragione René Girard quando dice che ciò che chiamiamo desiderio non è un anelito così alto come ce lo raccontano i romantici.

Ma l'esercizio di andarsi a rileggere quello che abbiamo scritto negli ultimi giorni potrebbe restituirci in modo salutare quella quota di stupidità che ci spetta, e che cerchiamo di ignorare. Leggiamo quello che abbiamo scritto, quello che ci è sorto lì per lì, e per una volta togliamolo dal suo lì per lì e guardiamolo in faccia. Ci sentiremo più stupidi, più vuoti, e questo potrebbe farci bene.

Un altro esempio. Si una l'espressione «ti conosco come le mie tasche», ma noi conosciamo davvero le nostre tasche? Personalmente, dico di no. A ogni cambio di stagione mi capita di togliere da giacche, giacconi e impermeabili quello che era rimasto dentro le tasche. Sono reperti preziosi, che ci raccontano qualcosa degli ultimi sei mesi che, forse, non ricordiamo più.

Un biglietto ferroviario porta stampigliato il nome della stazione di arrivo, e io mi chiedo cosa ci fossi andato a fare in quel posto. Poi me lo ricordo, ricordo la delusione e poi anche l'illusione che mi aveva fatto accettare un invito declinabile.

Trovo la lettera di una persona maleducata che mi chiedeva un breve racconto, che io poi ho scritto senza nessuna soddisfazione, a titolo gratuito, e per il quale non ho ricevuto nemmeno un grazie: avevo detto sì solo alla mia voglia di apparire, di far girare il mio nome, oppure chissà cosa: mistero...

Ci sono le ricevute fiscali di alcuni acquisti, tra cui il conto (pagato da me) di un pranzo con una persona che non voleva darmi niente ma solo rubarmi qualche informazione, che io ho concesso volentieri anche se sapevo che quella persona non intendeva usarle a mio vantaggio.

Ecco dunque ben ritratta la mia vanità. Ma non credo di essere un caso isolato.

In un'altra tasca trovo una breve lettera di una donna che, dopo avermi chiesto di aiutarla a superare una crisi nel rapporto con la figlia (gli scrittori sono personaggi pubblici che però parlano di cose personali e perciò si trovano spesso nella condizione del prete), dopo un silenzio di parecchi mesi mi ha chiesto nuovamente aiuto perché sua figlia, fino a un anno prima tutta casa e chiesa, era scappata e ora viveva in una comune in Danimarca. Nella lettera diceva anche di non sentirsi molto bene.

Non le ho mai risposto. Ci penserò domani, dicevo tra me. Nel frattempo quella donna è morta.

Sono solo esempi.

Un tempo la pratica che ho descritto aveva un nome: si chiamava esame di coscienza, e consisteva in un esercizio non molto diverso da questo: guardare la propria vita nel tempo (che non è nostra proprietà), cercando quei segni, che ci sono sempre, che ci dicono non quello che vogliamo o diciamo di essere ma soltanto quello che siamo.

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