Metamorfosi delle rockstar Le tasse diventano esagerate e loro dicono cose di destra

Dai Beatles di "Taxman" fino agli Afterhours, tante le canzoni anti fisco. L’agenzia delle entrate trasforma in liberisti anche i divi progressisti. La ballata di Zalone

Metamorfosi delle rockstar Le tasse diventano esagerate e loro dicono cose di destra

Rockstar si nasce, forse. Ma liberali si diventa per forza. Specialmente dopo la dichiarazione dei redditi. Rivoluzionari in sala prove. E poi borghesi dopo il primo posto in classifica. Sex tax and rock’n’roll. E non c’è bisogno di Checco Zalone, che nel neo aspirante tormentone La Cacada canta a modo suo che «è necessario far qualcosa por le casse dell’erario» ma poi tra le righe butta lì un verso che neppure Beppe Grillo ai bei tempi: «Se si stada lisensiata, se hai la casa pignorada, a l’ufficio dell’entrata puoi ballare la cacada». Qui si scherza, d’accordo ma, insomma, troppe tasse. Ciclicamente, nella storia della musica leggera, se ne sono lamentati in tanti, ricchi famosi famosissimi. Spesso imprevedibili come i Kinks di Sunny afternoon del 1966: «Il fisco si è preso tutta la mia pasta».

E spesso incompatibili come Billy Bragg, cantautore punkfolksoul inglese che spesso è più a sinistra di Mao Tse tung ma che in Ideology del 1986 si è lamentato delle troppe tasse arrivando nel 2010 ad annunciare di non pagarle proprio, a meno che fossero ridotti i benefit statali ai manager della Royal Bank of Scotland. Dunque Robin Hood (evasore) a beneficio di tutti. Mah. Toglietemi tutto, ma non esagerate con le tasse. Di certo l’apripista in materia è stato quello che George Harrison ha scritto per Revolver dei Beatles: Taxman. «L’ho scritta quando ho capito per la prima volta che, nonostante avessimo iniziato davvero a guadagnare soldi, li stavamo spendendo quasi tutti in tasse», ha spiegato George Harrison.

Certo, quando lui è morto, il suo patrimonio valeva oltre duecento milioni di sterline, quindi per un beatle la lamentela era assai relativa. Però è anche vero che, ai tempi, l’erario di Sua Maestà era feroce con i ricchi, arrivando a prendersi circa il novanta per cento dell’incasso. Chiedere, please, agli Who, che nel 1975 pubblicarono Success story: «Ho dovuto suonare qualche concerto/ Sei (parti - ndr) per l’esattore e una per la band».

Mica gli unici a lamentarsi. «Prendi quel contante con entrambe le mani e mettilo da parte» cantano allusivamente i Pink Floyd nella favolosa Money. Ovvio, è un tema delicato, specialmente se trattato da chi incassa a palate e poi si fa ascoltare dall’uomo qualunque, da noi. Qualcuno lo ha attutito avvolgendolo in versi di protesta (come l’anti Vietnam Fortunate son di Creedence Clearwater Revival del 1969) o di riflessione sul lato oscuro del successo (Movin’out di Billy Joel del 1977). O di disillusione, come Johnny Cash in After taxes: «Si può sognare una luna di miele per due, ma puoi fare solo quello perché al momento giusto lo Zio Sam ti porta via tutto».

I più spiritosi ci hanno scherzato su. Vedasi Willie Nelson che ha accennato al problema in Tired del 2004 dopo che, nel 1992, aveva pubblicato un intero disco (Who’ll buy my memories?) per pagarsi un debitone da 32 milioni di dollari con il fisco. E comunque, dai Jethro Tull di Lap of Luxury passando per i Cheap Trick di Taxman mr Thief o Jimmy Buffett di Carnival world fino agli Abba di Money money money del 1976 e all’essenziale Marvin Gaye di Inner city blues del 1971 («Non posso pagare le mie tasse»), la voracità dell’esattore ha fatto lacrimare il rock. Anche in Italia. C’è chi si è lamentato ironicamente come i Pitura Freska di Tasse del 1993: «Se ti vol star trancuio ne la to casa, paghighe la tassa sinò ti va in strada» (e non c’era ancora l’Imu). O come Er Piotta di Pago le tasse del 2004.

E chi, come gli Afterhours, hanno messo tra parentesi la poesia per cantare: «Un mondo di tasse scorre via, sognavo diversa l’anima mia» (da Questo pazzo pazzo mondo di tasse del 1997). In poche parole, la musica leggera ha per decenni condiviso con il pubblico preoccupazioni e angosce. Poi, vuoi per allineamento ideologico o per convenienza pelosa, su argomenti equivocabili come il fisco ha preferito astenersi.

Con il risultato che nel 1966 potevano permettersi di protestare (con conseguenti polemiche) anche i più grandi di tutti, i Beatles. Oggi riesce a farlo, scherzando per carità, solo un comico prestato alla musica. Fate voi com’è cambiato il mondo.

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