Mira Nair cerca il dialogo ma senza sconti all'America

La regista indiana con "The Reluctant Fundamentalist" racconta il confronto tra Est e Ovest. Però sfuma sull'estremismo islamico

Venezia - Se la tragedia dell'11 settembre è la ferita più profonda del Terzo millennio, il dialogo tra Est e Ovest, tra America e mondo islamico, è la strada per guarire quella ferita tuttora aperta. Ma è un dialogo complesso e problematico, senza certezze e passaggi sicuri. Anzi, con un elevato grado di rischio. E in cui risulta ancora difficile fidarsi dell'interlocutore. Tanto più se dietro la faccia del giornalista si nasconde un agente della Cia o se quell'ex analista finanziario di Wall Street è un pakistano che ha piantato tutto, fatto ritorno a Lahore dove insegna proprio nell'università nella quale è stato rapito un professore americano. Insomma, l'incontro tra le civiltà deve scavalcare tante diffidenze e pregiudizi. A provare a costruire un ponte è Mira Nair, regista indiana emigrata a New York, il cui padre è vissuto proprio a Lahore, prima della separazione dal Pakistan. Il suo The Reluctant Fundamentalist, che ieri ha inaugurato la 69ª edizione della Mostra, è un thriller politico tratto dal romanzo autobiografico di Mohsin Hamid, presente all'incontro con i giornalisti insieme al cast e al produttore Tarak Ben Hammar. Se l'11 settembre è quella ferita, ieri le parole più pronunciate sono state «guarigione» e «superamento degli stereotipi». Intenzioni lodevoli, dunque. Come lodevole, eppure cosparso di ingenuità, è l'impegno narrativo per dare equilibrio a una storia che si svolge in tre continenti, Asia America, Europa, e viene raccontata attraverso un lungo flashback.
Mentre gli studenti manifestano per strada dopo il rapimento del docente americano, in un locale di Lahore il giornalista Bobby Lincoln (Liev Schreiber) e il professore pakistano Changez Kahn (Riz Ahmed) parlano davanti a una tazza di tè. Lo scopo dichiarato è un'intervista ma, domanda dopo domanda, la conversazione mette a nudo le vere identità dei due uomini e si trasforma nel tentativo di capire dov'è nascosto l'ostaggio e di tenere a bada la rivolta montante. Changez racconta il fascino per il sogno americano e per un Paese nel quale tutti partono alla pari. Nell'azienda diretta dal pragmatico Jim (Kiefer Sutherland), il giovane pakistano costruisce un avvenire brillante imparando i «fondamentali» dell'economia. Ma dopo la tragedia, di cui apprende dalla tv, tutto si complicherà, compresa la promettente storia d'amore con Erica (Kate Hudson). È qui che affiorano i dubbi sulla sua identità, acuiti dalla diffidenza che improvvisamente lo circonda. Changez matura così la decisione di tornare nella patria d'origine dove, tuttavia, s'imbatterà in altre verità «fondamentali».
Per il direttore della Mostra Alberto Barbera questo è un film di denuncia «contro ogni fondamentalismo, dell'Islam e dell'Occidente». L'operazione sottesa alla scelta di The Reluctant Fundamentalist come film d'apertura è dunque chiarissima. E la piega che rischia di prendere la Mostra anche. Qualcosa fa pensare che nei prossimi giorni ci sarà da discutere parecchio. Perché i fondamentalismi sono tutti uguali e vanno sconfitti. Siamo per il dialogo e la terza via.
Certo, la cineasta bollywoodiana aveva una ragione molto personale per cimentarsi nell'impervio tentativo di affrettare la pur necessaria riconciliazione. Il 9 settembre 2001 proprio qui a Venezia ricevette il Leone d'oro per il suo MoonsonWedding prima di volare a Toronto dove apprese dell'attentato alle Torri gemelle. «I miei famigliari erano lì a New York», ha ricordato Mira Nair. «Ci è voluta una settimana prima che potessi comunicare con loro. È stato terribile. E lo è stato per tutto il mondo. Improvvisamente persone che appartenevano alla stessa comunità erano viste come altri, diversi, sospetti. È stato uno scisma. Con questo film ho voluto provare a costruire un ponte». Tuttavia, pervasa di buone intenzioni e sfumando sugli eccessi dell'estremismo religioso musulmano e sulla tragicità dell'attentato, la storia inclina inevitabilmente dalla parte dell'Islam. Come pensa verrà accolto il suo film negli Usa? «Spero ne sia rispettato lo spirito. Che è molto diverso da ciò che disse all'epoca George Bush: o con noi o contro di noi. Io credo che il dialogo sia il percorso della guarigione da questa ferita profonda». Concorda l'autore del romanzo ispiratore.

«Non c'è una sola America come non c'è un solo Islam. Dobbiamo andare oltre le etichette e gli stereotipi dei giornali per imparare a dialogare e trovare una terza via». Proviamoci. Ma resta qualcosa ancora di poco chiaro: quale sarebbe il fondamentalismo dell'Occidente?

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