Quando le cose sono fatte bene. Gli storici dell'arte, i direttori di musei, i critici come i curatori, discutono molto, spesso litigando, sui molti progetti rivolti alla tutela e la valorizzazione dell'immenso patrimonio culturale italiano. Difficile che un'operazione trovi il plauso di tutti. Di volta in volta si dibatte sui singoli interventi - si doveva, non si doveva, «sì però...» - o sull'uso del denaro pubblico, sul ruolo dei privati, sugli allestimenti, sulla gestione più efficiente...
Ecco. Ci sembra che l'ampliamento delle Gallerie dell'Accademia a Venezia, con l'apertura di due nuovi monumentali saloni dedicati alla pittura veneta del Sei e Settecento, e che si inaugurano oggi alla presenza del Ministro Dario Franceschini, sia - lo diciamo da semplici cronisti di cose culturali - un intervento modello.
Da una parte un preciso progetto per recuperare gli spazi del museo al piano terra che fino agli anni Duemila erano accora occupati dall'Accademia di Belle Arti. Poi la volontà di allestire «un museo dentro il museo» riservato esclusivamente alla pittura a Venezia e nel Veneto tra il XVII e XVIII secolo che, fino a oggi, non aveva uno spazio specifico dedicato in alcun museo del mondo. Poi un lungo lavoro di studio e di recupero di un consistente nucleo di opere, molte mai esposte prima o restaurate per l'occasione, a cura del direttore delle Gallerie, Giulio Manieri Elia, insieme con Roberta Battaglia e Michele Nicolaci. E infine una intelligente collaborazione fra pubblico e privato con un sostegno importante - quasi 600mila euro - di Venetian Heritage, organizzazione no profit impegnata da tempo nella salvaguardia del tesoro artistico veneziano, oltre ai finanziamenti di altre fondazioni private e una parte minore di contributi statali.
Ed eccoci qui, dentro i due saloni «Selva-Lazzari» al piano terra delle Gallerie: un nuovo percorso di quasi 800 metri quadrati; 63 opere perlopiù inedite o mai viste nelle condizioni attuali; 220 metri quadrati di dipinti restaurati; 230 metri lineari di cornici recuperate o realizzate ex novo; quindici ditte di restauro impegnate; un innovativo impianto di illuminazione a tecnologia LED sponsorizzata da un'eccellenza del settore, la «iGuzzini illuminazione».
I due nuovi saloni - che collegano idealmente i capolavori del Tre-Quattro-Cinquecento alle sale riservate al Neoclassicismo e l'Ottocento, ai piani superiore - costituiscono nello stesso tempo un ampliamento e una sorta di completamento delle Gallerie dell'Accademia. E da oggi un motivo in più per rivedere il museo per i visitatori e allo stesso tempo un ulteriore campo di studio per gli storici dell'arte.
Capolavori, storie inedite, curiosità, miracolosi recuperi, artisti da riscoprire.
Nella prima Sala, la numero Cinque del percorso museale, spiccano alcune opere di grande e grandissimo formato del Seicento veneziano, provenienti soprattutto da chiese e altri edifici religiosi della città, come la monumentale Deposizione di Cristo di Luca Giordano (mai esposta prima anche per ragioni di spazio) o il Daniele nella fossa dei leoni di Pietro da Cortona. O le decorazioni della chiesa dell'Ospedale degli Incurabili, distrutta nel 1831, di cui viene qui presentato per la prima volta in assoluto uno dei tre ovali (due sono andati perduti, e di uno resta un frammento acquistato dallo Stato italiano nel 2016, che è qui) originariamente incastonati nel soffitto a cassettoni della chiesa: eccolo qui, restaurato e allestito «a soffitto», per restituirne la visione corretta dal sotto-in-su: raffigura la Parabola delle Vergini sagge e delle Vergini stolte dipinta dal Padovanino. Tra le altre novità assolute, la Strage degli Innocenti di Sebastiano Mazzoni acquisita dalle Gallerie dell'Accademia quest'anno.
«Con questo allestimento - spiega il direttore Giulio Manieri Elia che ci accompagna in anteprima tra le sale - vogliamo offrire non solo un nuovo percorso visitabile, ma anche una immagine completamente nuova del museo: sono le Gallerie che non ti aspetti. Certo, tutti sanno che qui dentro ci sono, e si aspettano di vederli, Bellini, Tiziano, Tintoretto, Veronese.... Ma adesso c'è anche qualcosa di diverso». Una perla veneziana in una collana di capolavori.
Ed eccoci nel secondo nuovo salone, la Sala Sei del museo. Benvenuti nel Settecento. Ad accoglierci è un'opera incredibile, mai vista prima, dalla storia avventurosa: Erminia e Vafrino scoprono Tancredi di Gianantonio Guardi. Il dipinto, realizzato attorno al 1750-55, faceva parte di un ciclo di tele, alcune delle quali ispirate all'edizione veneziana della Gerusalemme Liberata del Tasso, edita nel 1745 con incisioni di Giovan Battista Piazzetta. Tra il 1829 e il 1830, insieme ad altre tele del ciclo, fu acquistata dal conte di Bantry per la sua residenza irlandese nella contea di Cork. Più di un secolo dopo, nel 1956, un antiquario di Dublino entrò in possesso di alcuni dei dipinti, che conservò in qualche modo in un deposito-pollaio; la tela ora in possesso delle Gallerie, insieme ad altre quattro del gruppo originario, fu in seguito acquistata dal collezionista londinese Geoffrey Merton. Poi, la dispersione. Due tele sono alla National Gallery di Washington, una al Museo di Belle Arti di Copenaghen, un'altra fa parte della collezione Neville Orgel di Londra e una è esposta al Montreal Museum of Fine Arts... Erminia e Vafrino è l'unico frammento rimasto in Italia, recuperato da Rodolfo Siviero (il celebre agente segreto e storico dell'arte che salvò migliaia di opere d'arte trafugate dall'Italia nel corso della seconda guerra mondiale): lo trovò in una raccolta inglese e poi, negli anni Ottanta, fu assegnato dallo Stato alle Galleria dell'Accademia di Venezia. Rieccolo qui, dopo un difficile restauro curato da Erika Bianchini (le condizioni dell'opera era pessime...), restituito ai veneziani e al mondo. Un unicum. Tanto quanto l'altra straordinaria opera qui accanto: il grandioso Castigo dei serpenti (1732-34) di Giambattista Tiepolo, una tela immensa, lunga oltre 13 metri, proveniente dalla chiesa veneziana dei Ss.
Cosma e Damiano, rimasta per quasi un secolo nei depositi demaniali, arrotolata, con la pellicola pittorica a vista, su un grande cilindro di legno, e ora «srotolata», restaurata e finalmente visibile al pubblico. Occupa l'intera parte sud della sala.
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