Ciò che resta sono gli occhi. Nel 1914 Osip Mandel'stam è già il genio degli acmeisti, il «primo violino», così lo definiva Anna Achmatova, zarina della poesia russa: nella fotografia ha i capelli ribelli, le labbra carnose e il giubbone aperto. Gli occhi sono socchiusi, ferini, come fermagli d'argento sulla chioma del secolo. Nella fotografia segnaletica del 1938, poco dopo l'arresto, nella cittadina di Satura, un centinaio di chilometri a est di Mosca, il poeta è irriconoscibile. Grasso, stempiato, viso sfatto dall'insonnia, giubba lacera. Ma gli occhi sono gli stessi. Impietosi. Indifendibili. Hanno già vinto e accolto e assolto. Non appena Mandel'stam muore, il 27 dicembre di ottant'anni fa, in un campo di transito, a Vladivostok, s'infiamma la leggenda. «Il nome di Mandel'stam è diventato un mito. La sua leggenda iniziò nell'arcipelago dei Gulag», racconta Ryszard Przybylski, dove «si sparse la notizia di un poeta che consolava i detenuti cantando le sue traduzioni di Petrarca, vicino al fuoco». Il poeta dagli occhi inflessibili, che ha visto i secoli allinearsi e correre come ghepardi, che ha previsto tutte le apocalissi, che ha scritto, «No, mai di nessuno fui contemporaneo,/ non fa per me un simile onore», porta l'amore dov'è l'orrore, sparge versi nelle fauci di Cerbero, evoca il fuoco verbale.
Forse è proprio Mandel'stam il poeta miliare del '900, forse è lui l'emblema stesso della poesia, nel cuore del proprio tempo tanto da essere sempre altrove, irrequieto, rovinoso (la fatidica ode a Stalin, il «montanaro del Cremlino»; l'atteggiamento di rivolta contro l'Unione degli scrittori; lo schiaffo al «conte rosso» Aleksej Tolstoj; i duelli tentati e gli amori intrepidi: altro che agnello sacrificale, Osip è il leone in rivolta contro i Soviet), rovinato, come se il poeta fosse la creatura che si sbriciola contro la vita, fino al fondo dell'umanità. Nessuno credeva davvero nella poesia impeccabile e australe e millimetrica di Mandel'stam: in vita lo sfottevano («scrive poesie da salotto», dicono i kapò dell'Unione degli scrittori), perfino Roman Jakobson non lo capisce, accecato dal gergo di Majakovskij («Splendidi sono i libri di Pasternak e, forse, quelli di Mandel'stam, ma sono poesia da camera, che non accenderà una creazione nuova»); Angelo Maria Ripellino ne comprende la latitudine, ma ne fa un lirico sul trono di cristallo («Senza piegarsi ai temi della contingenza politica, devoto sempre a un ideale di armoniosa bellezza, egli ha guardato la realtà come dall'alto di un'acropoli»).
Il tempo, però, che di solito esegue il compito assegnatogli dal caos, ha messo ragione: tra i russi, è la voce di Mandel'stam («nella stanza del poeta in disgrazia/ vegliano a turno la paura e la Musa», lo ricorda Anna Achmatova, nel 1936, dopo una visita nell'esilio di Voronez) quella che si staglia indelebile, come unghia di quarzo a folgorarci l'iride. Così, dopo le versioni di Remo Faccani per Einaudi, dopo la traduzione de La pietra da parte del poeta Gianfranco Lauretano - per il Saggiatore, riproposta quest'anno - dopo le «ottave» tradotte all'uncinetto da Serena Vitale per Adelphi (Quasi leggera morte, 2017) e i Quaderni di Voronez a cura di Maurizia Calusio per Giometti & Antonello (2017), quest'ultimo editore pubblica L'opera in versi di Mandel'stam (pagg. 372, euro 38), un gesto risolutivo, del destino - perché, pare, non si può tradurre altrimenti Mandel'stam che lasciandosi inghiottire. Non è lalia giornalistica: è il curatore, Gario Zappi - già traduttore di Venedikt Erofeev e di Arsenij Tarkovskij - a denunciare il valore testamentario di questa traduzione («Da anni sto tentando di tradurne le poesie, di ripercorrere, per corde e grate, per massi e rugginosi uncini il suo sentiero, di percepire il ritmo del tempo che fluisce in occhicerulea linfa nei suoi versi»), in reazione, anche, a «quei filologi-sistematici che tentano d'infilzarne il Senso con spilli entomologici per poi riporlo in bacheche lustre ed asettiche, di questo poeta che muta di spoglia e dismette il proprio involucro... per serbare intatto lo splendore delle sue ali di libellula». Quando ho tentato di intervistare Zappi, per chiedergli giustificazione di alcune scelte, mi è stato detto che non voleva saperne, ciò che ha fatto ha fatto. Questo, di pudore e austerità, è gesto che odora di grazia, di disciplina.
Ora abbiamo Mandel'stam tra le mani, verbo che converte al candore dopo l'ustione: il fanatico lirico, per consolidare la sua gioia, giocherà a comparare le traduzioni («Io so la scienza dei commiati, appresa/ fra lamenti notturni a chiome sciolte» è l'esordio di Tristia secondo Faccani; Zappi rende così: «L'ho appresa la scienza degli addii/ negli scarmigliati lamenti notturni»), per gli altri, questi sono versi da masticare la mattina, come una scabra liturgia («Debbo vivere, anche se doppiamente morto,/ in questa città resa folle dall'acqua»; «Come Rembrandt, martire del chiaroscuro,/ mi sono addentrato nel tempo che ammutoliva»), sapranno mutare il colore del sole e l'ago del giorno. «Il lirismo è l'etica del linguaggio, e la superiorità di questo lirismo su tutto quello che può essere realizzato in una società umana, di qualsiasi colore, è ciò che fa un'opera d'arte e la fa sopravvivere», scrive Iosif Brodskij, erede lirico di Mandel'stam e mandarino della sua memoria, in Il figlio della civiltà: «Ecco perché la scopa di ferro, maneggiata da chi voleva la castrazione spirituale di tutto il popolo, non avrebbe potuto non colpirlo».
Gorgheggiando nel chiarore («O, come desidero,/ non percepito da nessuno,/ volare dietro al raggio di luce/ dove non esisto affatto!»), Mandel'stam è disceso nell'Ade della Storia. Come un Orfeo a contrario, è morto; ma il suo canto resiste - e siamo noi i risorti, ora.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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