La storia dell'arte riferisce di straordinari rapporti tra pittori e collezionisti. Finita, con la modernità, l'era delle grandi commissioni religiose, si affermano quei sodalizi culturali e umani sfociati in profonde amicizie e complicità pur nel rispetto dei ruoli. A cominciare da quel timore reverenziale nei confronti dei Maestri, cui si è obbligati a dare del lei per rispetto, che l'eccesso di confidenza non aggiungerebbe davvero niente alla solidità del rapporto.
È in uscita per Johan & Levi il prezioso volume di Luigi Magnani Il mio Morandi (pagg. 148, euro 17), che raccoglie la testimonianza e l'epistolario tra il pittore bolognese e Luigi Magnani, collezionista, fine musicologo e scrittore. Nella villa, oggi sede della Fondazione Magnani Rocca nei pressi di Parma, aveva raccolto soprattutto opere classiche - Dürer, Tiziano, Canova, Goya - gli impressionisti - Renoir, Monet - avvicinandosi al moderno con i pittori preferiti, Cézanne e appunto Morandi.
Luigi Magnani era nato nel 1906, sedici anni dopo Morandi che era del 1890. Si incontrano per la prima volta nel 1940 e la loro frequentazione dura fino al 1964, anno di morte dell'artista. Conosciuto come un anti-personaggio, riottoso, prevenuto e ostile verso i nuovi linguaggi dell'arte, non perdeva occasione per affermare il primato della pittura classica. Eppure lo stile di Morandi non ha niente a che fare con il ritorno all'ordine né con le teorie novecentesche: il suo anti-monumentalismo, lo sguardo al dettaglio quotidiano, la ripetizione infinita degli stessi soggetti, da cui la definizione di «regista di nature morte» per la cura ossessiva che metteva nell'apparecchiare la scena che poi avrebbe dipinto, la tavolozza bassissima, lo scivolare progressivo verso il grado zero della pittura fino al paradosso di una figurazione straordinariamente liquida ed evanescente, lo rendono oggi artista straordinariamente contemporaneo, persino più che nel suo tempo. Non è certo un caso che sulla sua poetica si siano misurati i più grandi critici italiani, Roberto Longhi, Francesco Arcangeli, Cesare Brandi.
Con profonda umanità e rispetto, Magnani racconta di quanto avesse cercato di incontrare il pittore. «Ero poco più di un ragazzo quando, avendo saputo da Cesare Brandi che Morandi, trovandosi a Salsomaggiore per cura, avrebbe desiderato visitare la collezione di un nostro vicino e amico, Glauco Lombardi, mi recai da lui per accompagnarlo a Colorno. Era ad attendermi dinnanzi al suo albergo: alto, magro, il busto eretto, il capo leggermente inclinato sulla spalla sinistra, il viso scarno, severo; ma la frangetta di capelli grigi sulla fronte addolciva l'espressione ascetica del suo volto, conferendo alla sua figura mitezza e candore monacale».
In breve si frequentano stabilmente. Magnani va a trovarlo allo studio di via Fondazza e a Grizzana sull'Appennino, dove regna l'ordine: «Nella casa di Morandi, come in quella di Goethe, non un foglio, non un oggetto che fosse fuori posto». Nonostante fosse consapevole, a tratti fiero, del suo isolamento culturale, pativa il giudizio affrettato della critica militante che si era spostata su astrattismo e informale. Racconta Magnani, «la critica lo giudicò inattuale, ritenendolo estraneo alla nuova realtà sociale, non partecipe o quasi indifferente alle ideologie politiche insorte nel dopoguerra, ai problemi e alle istanze che essa poneva e non meno alle ricerche e alle tendenze estetiche nuove». Da qui l'inattualità di Morandi. «Sapeva che la sua pittura non avrebbe mai potuto divenire popolare, né lo desiderava. Egli aveva dipinto e dipingeva per quei pochi che sentiva partecipi del suo mondo. Anche quando poi si fece rumore attorno alla sua opera, egli non violò mai la disciplina del più stretto riserbo che si era imposto a difesa del suo santuario interiore. Molto guardingo nei confronti delle persone cui dava i suoi quadri, la sua riluttanza a privarsene, la sua ferma resistenza a cederli per lusinga di profitto ne resero sempre più difficile e ambìto l'acquisto».
Quando non si incontrano di persona, Morandi e Magnani si scambiano lettere, un epistolario fatto di comunicazioni rapide, asciutte e dal tono formale, nonostante il rapporto di amicizia. Spesso il pittore si deve scusare per avere declinato un qualche invito e se ne deduce un uomo pigro, legato alle abitudini quotidiane, come star dietro alla madre e alle sorelle, alla preparazione delle mostre che lo impegna molto. Morandi non parla quasi mai di arte: gli è piaciuta la mostra di Bassano a Venezia, nonostante le pessime luci del Palazzo Ducale, gli comunica di aver rifiutato un invito a Copenaghen perché «vogliono proprio fare i padroni.
Mi vogliono proprio privare di quel poco di tranquillità necessaria al mio lavoro».La corrispondenza si interrompe nella primavera del 1964. È la sorella Dina a informare Magnani delle pessime condizioni di salute di Giorgio, fino al commiato definitivo con la lettera del 22 luglio.
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