Cultura e Spettacoli

Non accettiamo più il dolore. Ecco perché siamo così fragili

La nostra società è pronta a sacrificare tutto, anche la libertà, pur di non soffrire

Non accettiamo più il dolore. Ecco perché siamo così fragili

Premetto di fare parte anch'io della «società palliativa» criticata da Byung-Chul Han in La società senza dolore (Einaudi). Sì, sono uno dei tanti con «un atteggiamento di rifiuto nei confronti del dolore», e gradirei un po' di morfina anche per sopportare l'ago della vaccinazione, quando e se lo Stato sanitario sarà in grado di praticarmela... Tuttavia so bene che dal dolore, prima o poi inevitabile, sarebbe meglio saper trarre un senso: ex malo bonum, dicevano i latini. E che l'anestesia ha un prezzo, non solo dal punto di vista Asl: «Le crescenti aspettative nei confronti della medicina, associate all'insensatezza del dolore, fanno sembrare insopportabili i dolori più insignificanti». In tal modo l'individuo infiacchisce, e insieme all'individuo la collettività.

Attualissimo questo piccolo libro del filosofo germano-coreano (ma forse bisognerebbe chiamarlo semplicemente filosofo tedesco visto che vive in Germania da decenni e che scrive nella lingua dei peraltro molto citati Hegel, Nietzsche, Heidegger, Jünger...). La parola «pandemia» non si trova nel titolo e nemmeno nel sottotitolo e però aleggia dalla prima all'ultima pagina. Dove Han scrive «dolore» spesso si può leggere «virus». Ad esempio: «Una caratteristica cruciale dell'odierna esperienza del dolore consiste nel fatto che esso venga percepito come privo di senso. L'intera narrazione cristiana l'ha abbandonato per sempre». Ovviamente ho pensato subito alla reazione della Chiesa alla presente calamità, di un'insignificanza spettacolare e temo epocale: non vorrei che gli storici del futuro datassero 2020 la fine della presenza pubblica cristiana in Occidente. La scorsa Pasqua come il definitivo Due Novembre della Santa Sede. La Chiesa, e quando dico Chiesa dico la gerarchia ecclesiastica, Papa, cardinali, vescovi ed eventuali Santi, in altri secoli avrebbe parlato di punizione divina, di vita eterna, di morte-giudizio-inferno-paradiso, insomma di categorie proprie della bimillenaria tradizione cristiana. Qualche decennio e qualche Pontefice fa avrebbe quantomeno riaperto il catechismo, ancor oggi leggibile sul sito del Vaticano ma come invisibile e muto: «Molto spesso la malattia provoca una ricerca di Dio, un ritorno a lui». Invece è da un anno che il cattolicesimo ufficiale si mostra succube di una religione concorrente, l'ambientalismo, allineandosi a una lettura che addebita la pandemia a peccati commessi dall'uomo nei confronti della Madre Terra. Nessun ritorno a Dio, casomai ritorno a Pachanama: è la direzione indicata dalla linea Bergoglio-Draghi che è gesuitismo, non cristianesimo.

Il saggio La società senza dolore oltre ai succitati filosofi tedeschi sfrutta molto l'ultimo o penultimo Agamben: non parlo di saccheggio perché Han non è Galimberti e quando si avvale di pensieri altrui lo dice, mette la nota, il riferimento puntuale. Non mancano Illich e Foucault, abbastanza inevitabili quando ci si muove tra pandemia e filosofia. Tutte cose che mi sembra di avere già letto ma repetita iuvant in questo momento di stanchezza se non di rassegnazione. Perché di dittatura sanitaria bisogna continuare a parlare prima che il modello cinese si imponga stabilmente anche in Europa. Perché, penso sia evidente a chiunque non abbia gli occhi foderati di prosciutto statalista, «alla luce della pandemia, ci dirigiamo verso un regime di sorveglianza biopolitica». Byung-Chul Han liberista, liberale, libertario? Meglio tardi che mai.

Nell'ultimo libro il filosofo che in passato ce l'aveva col neoliberismo - «ismo» di cui non sono mai riuscito a capire i precisi contorni - scrive che «il liberismo occidentale fallisce dinanzi al virus. A causa del dispositivo d'igiene, la società della sopravvivenza si vedrà obbligata a rinunciare ai principi liberali». È un passaggio che profuma di nostalgia: non era poi così male il liberismo occidentale che, se non altro, quand'era in auge garantiva la libertà di movimento. Do you remember Schengen?

A proposito di nostalgia. Han scrive che «nella società palliativa disimpariamo totalmente come si fa a rendere il dolore raccontabile, anzi cantabile, a renderlo linguaggio, a traghettarlo in una narrazione...». E allora ricordo il culto cristiano dei morti che ho conosciuto non al tempo del suo massimo fulgore ma nemmeno nello stato comatoso odierno, e mi vado a leggere un altro libro Einaudi appena uscito, anzi rieditato, Morte e pianto rituale di Ernesto De Martino. L'illustre antropologo vi descrisse il lamento funebre lucano, ancora vivo negli anni Cinquanta presso donne analfabete che sapevano trasformare lo strazio in canto.

In una società che col dolore sapeva farci i conti.

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