Occidente prigioniero della propria ignoranza. E la Russia si fa avanti

Lo scrittore ceco riflette sui legami culturali delle "piccole patrie" dell'Europa centrale

Occidente prigioniero della propria ignoranza. E la Russia si fa avanti

«Nel settembre del 1956, il direttore dell'agenzia di stampa ungherese, pochi minuti prima che il suo ufficio venisse distrutto dall'artiglieria russa, trasmise al mondo intero per telex un disperato messaggio sull'offensiva che quel mattino i russi avevano scatenato contro Budapest. Il dispaccio finisce con queste parole: «Moriremo per l'Ungheria e per l'Europa». Il direttore intendeva dire che in Ungheria era l'Europa a essere presa di mira. «Perché l'Ungheria restasse Ungheria e restasse Europa, era pronto a morire». E morì (peccato che Orban lo abbia dimenticato).

Così inizia un articolo per Le Débat del novembre del 1983 di Milan Kundera riproposto, assai tempestivamente, da Adelphi nel volumetto Un Occidente prigioniero (tradotto da Giorgio Pinotti) insieme al suo discorso alla Conferenza degli scrittori cechi del 1967. Se si sostituisce Ungheria con Ucraina, scopriamo l'attualità della tragedia in cui sono costrette a vivere le piccole nazioni come quella ceca, slovacca, polacca, rumena, ucraina- da quasi un secolo sotto la minaccia prima del Terzo Reich e poi dal 1945 dell'Urss e ora della Russia. I due testi sono per noi occidentali impressionanti per la rievocazione attualissima- dell'amore coraggioso per la cultura e la civiltà occidentale da parte delle piccole nazioni dell'Europa centro-orientale.

Lo scrittore si riferiva alla tragedia del popolo ceco del '68, ma la storia si ripresenta analogamente con la nazione ucraina. Il problema, allora come oggi, era ed è che l'Europa riconosca i valori spirituali per cui le piccole nazioni combattono per sopravvivere all'imperialismo russo, la cui vittoria qui Kundera cita Palacky, il principale storico ceco dell'Ottocento- «sarebbe una sventura immensa e indicibile, una sciagura smisurata e senza limiti».

Il pensiero di Kundera ruota con insistenza sul primato della cultura dell'Occidente. E l'opzione occidentale della cultura ceca da Haek a Hrabal e allo stesso Kundera- conferma la sua straordinaria forza per la rinascita della nazione ceca, che ancora nel 1848 veniva contestata perfino da Friedrich Engels, il cofondatore del marxismo. Allora i cechi erano un popolo senza cultura, che doveva appoggiarsi alla lingua culturale tedesca per qualsiasi comunicazione che non fosse di mera quotidianità. Fu un'epopea straordinaria quella che fece risorgere l'identità culturale ceca come dimostra l'opera del primo presidente della repubblica cecoslovacca, Tomá Marasyk che inventò il lessico filosofico ceco. Fenomeni analoghi avvennero nella cultura ungherese, rumena, polacca. Anche per l'Ucraina la letteratura costituì il momento cruciale della riconsacrazione dell'identità nazionale. Ci fu un diffuso riconoscimento popolare per l'azione degli intellettuali tanto che l'importante città di Stanislaw venne rinominata Iwano-Frankiwsk in onore dello scrittore Iwan Franko (1856-1916), assertore dell'identità linguistico e culturale ucraina.

Per le nazioni centro-orientali il pericolo russo coincide(va) con la stessa sopravvivenza. Kundera descrive la strategia dell'imperialismo russo riflettendo sul soffocamento della Primavera di Praga del 68 con i soliti carrarmati (che oggi hanno aggiunto la ferale Z): «Anzitutto venne distrutto il centro dell'opposizione; poi venne minata l'identità della nazione in modo che potesse essere più facilmente fagocitata dalla civiltà russa; infine venne bruscamente interrotta l'epoca dei Tempi moderni, cioè l'epoca in cui la cultura rappresentava ancora la realizzazione dei valori supremi». Quella stagione del socialismo dal volto umano era iniziata nel 1963 con la conferenza su Kafka nel Castello di Liblice con un memorabile intervento di Eduard Goldstücker, che divenne uno dei protagonisti della Primavera accanto a Dubek. Ma fu subito autunno con l'invasione sovietica e dei paesi fratelli. L'Europa Occidentale protestò assai civilmente, sicché si comprende l'amarezza di Kundera. Per lui l'Europa aveva perso se stessa, aveva perso l'audacia spirituale di quei suoi Tempi moderni fondati sull'individuo «che pensa e dubita». E la Russia rimane immutata o quasi.

Insomma oggi oltre i carrarmati ci sono i ceri del Patriarca. Il nucleo profondo della riflessione di Kundera è sull'incapacità dell'Occidente di ritrovare l'identità autentica, quella delle sue radici greco-romane e cristiane, quando l'Europa non era «un fenomeno geografico, ma una nozione spirituale, sinonimo di Occidente», mentre si assiste alla «perdita irrimediabile» della sua cultura. Quella cultura, che è stata per secoli l'orgoglio dell'Europa, è ora sostituita e non solo da noi- da mediocri talk show televisivi. Una decadenza che Kundera condannava già nel 1983 a Parigi, dove era emigrato, presagendo il progressivo deterioramento intellettuale: «Negli ambienti colti, a cena si discute di trasmissioni televisive e non di riviste. La cultura, infatti ha già ceduto il suo posto. Quella scomparsa, che a Praga vivemmo come una catastrofe, uno choc, una tragedia, viene vissuta a Parigi come qualcosa di banale e insignificante, a stento visibile, come un non-evento».

Oggi potremmo aggiungere che tale scomparsa si conferma in tante nostre città e cene.

Non si può permettere, -ecco il senso della riflessione di Kundera-, che morire per l'Ucraina e per l'Europa sia solo una frase, che semmai ha senso solo a Varsavia e nei Paesi baltici. La nostra cultura non lo merita. L'Ucraina non lo merita.

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