Dopo lo straordinario repertorio antropologico della mostra «May you live in interesting times» della Biennale di Venezia, dove si mostrano gli esempi più torbidi della meschinità e della impotenza, con una quantità di idiozie e di orrori (fra i quali risalta l'impresa di Arthur Jafa, con pneumatici giganteschi di motrici avvolti da catene e dotati di un nucleo fuso simile a un meteorite, uno dei quali penzola da un sostegno come fosse un impiccato), l'entrata nel Padiglione Italia, capricciosissimo e insieme severo, rappresenta una vera e propria liberazione; l'arte, intesa come elaborazione della fantasia e della intelligenza, esiste ancora; ed è, per merito del curatore, Milovan Farronato, italiana.
Il disordine e la confusione mentale del direttore generale, Ralph Rugoff, si manifestano nella selezione arbitraria (e perfettamente legittima, come mostra personale), gravemente lesiva della rappresentazione di un momento storico incredibilmente più ricco e vario, in Europa, in Oriente e in Sudafrica per esempio, rispetto alla tendenziosa selezione che ci è offerta. Esattamente all'opposto, il Padiglione Italia già nel titolo, «Né altra né questa», indica la capziosa volontà del curatore di fare una mostra d'autore, scegliendo tre valorosi artisti, Enrico David, Chiara Fumai e Liliana Moro, non per documentarli ma per realizzare il Padiglione a sua immagine e somiglianza. La mostra di Farronato è uno dei suoi possibili autoritratti; e la sua vita di curatore, persino più della mia, sarà sempre, all'opposto del triste e antropologo Rugoff, un'interminabile autobiografia. Il merito di David, della Fumai e della Moro è evidente in alcune singole opere che non disegnano però mostre personali, ma il percorso della mente di Ferronato, sereno negli abiti di Gucci, nella sua «Sfida al labirinto» secondo la dichiarata citazione di Italo Calvino. Farronato è alla ricerca continua di case della vita nelle quali sfuggire alla propria, probabilmente in un condominio di Borgonovo Valtidone, vicino a Piacenza.
«Sono solo, a casa, non voglio uscire, ma desidero fumare e ho bisogno del materiale necessario: tabacco, cartine, filtri. Ripercorro la casa per trovare quello che mi occorre, in cerca di lasciti, di residui, di detriti abbandonati tra le pieghe del divano, tra fogli di carta accumulati. La casa si fa protettiva, accogliente, generosa. Diventa l'immagine del mio desiderio. L'architettura di un desiderio può essere talmente accurata da diventare realtà. Desiderare in dettaglio è una delle precondizioni della piacevolezza del rimanere, del non agire. La casa può sembrare una metonimia, la sineddoche di un macrocosmo. Quel che appare una riduzione è in realtà la resa di un'architettura che desidera minuziosamente. Ogni angolo, ogni anfratto viene ossessivamente ricreato mentalmente e forse già realizzato. Non si tratta di una fantasia ma di un pensiero che si fa prassi quotidiana». Nessuno «abita» la sua mostra come Farronato, e anche le opere di maggiore tensione intellettuale come Visites fantastique de Vito Acconci di Chiara Fumai (che solo apparentemente se n'è andata), sono oggi portate a compimento da lui, in una introspezione medianica. Altrettanto tese, nell'invenzione e nella originale concezione, sono le opere di Enrico David, come Another Sky (con lo sfondo di un «né in cielo né in terra», neon di Liliana Moro), la cui declinazione figurativa è totalmente rigenerata per non corrispondere a nulla di reale: una figurazione eventuale o alternativa, per una umanità che vive in un labirinto.
Tra quelli che Farronato prende in esame c'è il labirinto di Burri generato dal terremoto a Gibellino. È quello che si può ripopolare delle creature postume di Enrico David, come l'umanità sopravvissuta a un cataclisma. Ma nessun artista si specchia meglio, nella mente del curatore, di Liliana Moro, la cui personalità poliedrica si manifesta in una varietà di invenzioni che non corrispondono né a una estetica né a una poetica, ma a uno stato d'ansia nel confronto con la realtà e con il mito. Dalle fotografie delle finestre sbarrate di una casa circondariale, del 1988, a due materassi di gommapiuma avvinghiatissimi, legati da un nastro rosso, alla Spada nella roccia, tradotta in una pura essenza di vetro (1998-2019), al labirintico pozzo di San Patrizio, restituito prospetticamente, ai tavoli di sosta sotto ombrelloni, con la musica di Bella ciao tradotta in quattordici lingue. Poi il mondo ideale di Liliana Moro, la sua essenza concettuale, si concretizza in un'opera perfetta, un cane che punta una foglia caduca, tradotto in ceramica dalla Bottega Gatti di Faenza.
Il risultato finale del Padiglione, anche nei vasti spazi vuoti (in pieno contrasto con l'horror vacui dello stesso Padiglione nell'edizione da me curata nel 2011, nel tentativo di catalogare, attraverso il pensiero di suggeritori, tutto l'esistente), è di grande armonia nel percorso inevitabile, come la vita, del labirinto. Ma il Minotauro è lo stesso Farronato che si muove perfettamente a suo agio negli spazi della sua mente. L'impresa è riuscita. La sensazione è che protagonisti non siamo gli artisti, ma il curatore, che avrebbe potuto, nello stesso labirinto, inserirne altri tre, completamente diversi e altrettanto utili a ricondurci al suo pensiero. La funzione critica non è dunque nella ricerca e nel servizio dell'arte, ma nel superamento del compito storico con cui abbiamo catalogato e inventariato gli artisti del passato. I contemporanei sono parte della nostra vita, ed esistono in quanto la spiegano in un infinito gioco di specchi.
In fondo quello che il Padiglione Italia ci mostra è la realtà dell'arte dopo Michelangelo Pistoletto, oltre lo specchio. Ogni critico, scegliendo gli artisti, racconta la propria vita. E la «Sfida al labirinto» è il compimento di un'autobiografia.
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