Venezia 2020

"Padrenostro" è una preghiera a non tacere il male della vita

Gli anni di piombo visti con gli occhi di un bambino. Pierfrancesco Favino interpreta Alfonso Noce, il vicequestore che nel 1976 subì un attentato

"Padrenostro" è una preghiera a non tacere il male della vita

Venezia. È forse il film che più di ogni altro restituisce, con dialoghi perfetti e una messa in scena minuziosa, il punto di vista di un ragazzino nato nella prima metà degli anni '70: i lunghi corridoi di quelle case, il «non ho più fame» e la risposta della mamma «mangia l'ultimo boccone», il «è tardi vai letto» dopo la Linea di Cavandoli nel televisore, il tinello fumoso, la luce estiva che evidenziava il pulviscolo attraverso le tapparelle, Tex avidamente letto nel locale lavanderia del condominio, l'andare dietro in piedi in bici, respirare quasi gli odori di quelle cucine (sicuramente rivederne i colori). E poi la domanda ricorrente: «Papà quando torna?». Ecco sì, ma papà, torna?

Bella domanda se sei il figlio di un vicequestore della Polizia nel 1976. Nella vita come in Padrenostro, primo film italiano del concorso di Venezia 77 nelle sale dal 24 settembre con Vision Distribution, perché il regista Claudio Noce è il figlio di Alfonso Noce che fu vittima di un attentato a Roma, nel dicembre di quell'anno, da parte dei Nuclei Armati Proletari. Sul selciato rimane il terrorista Martino Zicchitella mentre nell'auto di scorta di Alfonso Noce, responsabile dei Servizi di sicurezza per il Lazio (il nucleo regionale dell'antiterrorismo), viene colpito a morte l'agente di polizia Prisco Palumbo. Ecco sì, papà non torna a casa. Per un po' o per sempre. In quegli anni poteva succedere. Ma la cosa interessante del film è la voglia di non cedere a nessun sentimento di vendetta. Anzi, la cosa ancora più bella è che un regista nato nel 1975 (il fratello più grande ha assistito dalla finestra all'attentato contro il padre) immagina che un altro mondo è possibile costruendo una complessa storia vista tutta dagli occhi di un bambino, Valerio, splendidamente interpretato da Mattia Garaci che avevamo già visto a Venezia in Capri-Revolution di Mario Martone. Nei giorni difficili dell'attentato, di cui non capisce né cause né effetti, conosce Christian (Francesco Gheghi), un ragazzino poco più grande di lui che sembra un Lucignolo uscito dal nulla delle campagne della Capitale quando ancora esistevano. Lo rincontrerà poche settimane dopo quando il padre guarito, interpretato da Pierfrancesco Favino, decide di prendersi una pausa tornando con la famiglia nella sua Calabria.

Da lì questa presenza fantasmatica assumerà un ruolo reale e centrale nel film che proprio su questa amicizia e sul rapporto del figlio con il padre e la madre (Barbara Ronchi) trova la sua ragione di essere. «Erano anni - spiega il regista - che ci pensavo ma volevo trovare il modo giusto di fare non un film sugli anni di piombo, ma sullo sguardo di un bambino trafitto e sul suo rapporto con il padre. In realtà volevo scrivere una lettera aperta a mio padre su un fatto non privato, ma universale». Gli fa eco Pierfrancesco Favino: «È una sceneggiatura in cui ho riconosciuto anche il mio, di padre. Da piccolo dovevo carpire la sua tenerezza che a lui sembrava debolezza. Poi devo dire che finalmente c'è un film che mette al centro la nostra generazione che è sempre stata un po' messa di lato perché non abbiamo vissuto i grandi movimenti. Io ho fatto solo la Pantera... Ma noi siamo quelli che hanno creato internet nelle loro stanzette, la nostra laicità ideologica ha generato una grande capacità comunicativa».

I genitori del regista hanno visto il film e il padre, in particolare, anche se mostrato come un uomo in difficoltà a raccontare ed esternare i propri sentimenti, «è stato molto emozionato e felice che io avessi raccontato questa storia». Oggi, 44 anni dopo, il film ci fa capire come i figli, degli uomini dello Stato e dei terroristi, «sono stati vittime dello stesso abuso - dice Claudio Noce - della stessa paura, quella che i nostri padri potessero morire.

Il film vuole essere di pacificazione per quella generazione, che io chiamo di invisibili, che voleva dare un nome a quella paura».

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