Ha attraversato quasi tutta la storia del Novecento, l'ha attraversata al confine, guardando da vicino le crisi e lisi di una terra dove le identità erano capaci di farsi violente. E lui quella violenza l'ha passata tutta sin da bambino. Boris Pahor è morto ieri a 108 anni dopo aver vergato romanzi importantissimi a partire da Necropoli, che è stato avvicinato per potenza narrativa ai capolavori di Primo Levi, Elie Wiesel o Imre Kertész. Non sempre per gli scrittori esperienza, biografia e letteratura si fondono. Nel caso di Pahor ciò accade in modo quasi automatico, con una alchimia perfetta. Allora partiamo dalla nuda biografia. Sloveno di cittadinanza italiana, era nato nel 1913 a Trieste, città che all'epoca era la grande porta marittima dell'Impero asburgico e respirava una cultura cosmopolita, ma sempre più carica di tensioni nazionaliste. Non aveva ancora compiuto sette anni quando, era il 13 luglio del 1920, vide, dalle finestre del seminterrato dove abitava, il cielo farsi rosso per le fiamme. Si precipitò fuori con sua sorella e sentì per la prima volta l'odore acre dell'odio, la luce sinistra dello scontro etnico. Gli squadristi fascisti di Francesco Giunta, in reazione all'uccisione di due marinai italiani nel porto di Spalato da parte di nazionalisti jugoslavi, avevano dato fuoco al Narodni Dom, la Casa della cultura slovena.
«L'orrore attecchì in modo pervicace in qualche angolo della mia coscienza e ci vollero anni per rimuovere lo choc», scrisse tanti anni dopo, dedicando a quegli eventi il libro Il rogo nel porto (ultima edizione per i tipi de La nave di Teseo). L'episodio che segnò l'inizio del terrore contro la minoranza slovena toccò anche lui, scavando un solco profondo nella sua infanzia. «Tutta Trieste stava a guardare l'alta casa bianca dove le fiamme divampavano a ogni finestra. Fiamme come lingue taglienti, come rosse bandiere... Gli uomini neri intanto gridavano e ballavano come indiani che, legata al palo la vittima, le avessero acceso sotto il fuoco. Ballavano armati di accette e manganelli». Da quel momento in poi sarebbe stato testimone della soppressione delle scuole e dell'uso dello sloveno, dell'assimilazione, dell'espulsione dei dissidenti. In questa condizione precaria, frequentò il seminario di Capodistria, fino al 1935, e poi di Gorizia, fino al 1938, anno in cui abbandonò gli studi di teologia. Portandosi dietro una sorta di fede panteista mai abbandonata del tutto, se non nella disperazione del lager: «Di fronte all'infinitezza dell'universo mi inchino e capisco di non essere nessuno, di non contare niente». Uscito dal seminario venne rapidamente trascinato nel gorgo della Seconda guerra mondiale. Finì in Cirenaica a combattere per un esercito che non sentiva suo: «Ero una cimice, ma in battaglia servivano anche le cimici». Dopo l'armistizio dell'otto settembre tornò a Trieste e si unì alla resistenza di lingua slovena. Nel gennaio 1944 venne arrestato dai collaborazionisti sloveni, i domobranci; incarcerato, fu torturato dalla Gestapo e deportato in Germania. Passò per moltissimi campi di concentramento - Natzweiler, Markirch, Dachau, Nordhausen, Harzungen, Bergen-Belsen - e sopravvisse.
Proprio l'esperienza che riaffiora in Necropoli, testo intensissimo del 1967 molto tardivamente tradotto in italiano negli anni '90 (ora per i tipi di Fazi). Per usare le parole di Claudio Magris «Necropoli è un ritratto a pieno campo e allo stesso tempo stringato - mai patetico - della vita (della non-vita, della morte) nel Lager. Un possente afflato umano coesiste con una nitida e fredda precisione». Precisione fredda che Paor usò anche per il libro firmato con Alojz Rebula: Edvard Kocbek: testimone della nostra epoca. Denunciava gli eccidi, del dopoguerra, perpetrati dall'esercito jugoslavo nei confronti di migliaia di collaborazionisti sloveni. Gli costò l'impossibilità di entrare in Jugoslavia, per anni.
Dove si arrestava l'occhio attento di Pahor? Nella distorsione prospettica proprio della sua ottica slovena. Nella rabbia per l'ingiustizia subita. Nel 2008 quando si aprì la pratica per conferirgli l'Ordine al merito della Repubblica italiana dichiarò che non avrebbe accettato alcuna onorificenza «da un Presidente della Repubblica che ricorda soltanto le barbarie commesse dagli sloveni alla fine della Seconda guerra mondiale, ma non cita le precedenti atrocità dell'Italia fascista contro di noi». Due anni più tardi, in un'intervista concessa al quotidiano capodistriano Primorske Novice, definì l'elezione a sindaco di Pirano del medico Peter Bossman, originario del Ghana, «un brutto segno per il Paese». «Guardate l'Italia dichiarò vuole nuovamente italianizzare l'Istria. E ce la farà, perché gli sloveni hanno poca coscienza nazionale». Alla fine Pahor ha anche incontrato Bossman, cercando di spiegare bene le differenze tra razzismo e identità... Ma per farlo ha dovuto muoversi da funambolo. L'enormità della tragedia delle Foibe e le responsabilità slovene erano, ad esempio, qualcosa che non riusciva ad elaborare, sceglieva in ogni occasione le tesi che minimizzavano le responsabilità o la conta dei morti, arrivando ad accusare, nel 2020, il Presidente Mattarella di aver parlato di crimini inesistenti, proprio dopo che Mattarella gli aveva conferito il titolo di Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana.
Ma non si possono giudicare gli scrittori solo dai loro inciampi. Non lo fa lo stesso Mattarella che ieri lo ha definito: «Voce autorevole della minoranza slovena in Italia, limpida e alta espressione letteraria del Novecento, testimone e vittima degli orrori causati dalle guerre, dal lascia un grande vuoto nella cultura europea».
Il vuoto è parzialmente attenuato dall'arrivo della sua autobiografia Figlio di nessuno che sarà in libreria a giugno per i tipi de La nave di Teseo (con un capitolo in più inedito rispetto all'edizione Rizzoli del 2012) e che riassume un'esistenza. Di confine, complessa e mai facile, ruvida e a volte dalla parte del torto.
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