Paolo Guzzanti, quando era presidente della Commissione Mitrokin, fu a un passo dalle prove che il terrorismo rosso aveva contatti con i Paesi dell'Est Ma poi tutto fu insabbiato

Paolo Guzzanti

«Venga a Budapest e troverà tutte le risposte che cerca» mi aveva scritto nell'estate del 2005 il procuratore generale di Budapest per posta diplomatica. E mi dette un assaggio: il terrorista venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos lo Sciacallo - mi disse - fu trapiantato dal Kgb sovietico a Budapest negli anni Ottanta e gli ungheresi furono costretti a sopportarlo mentre scorrazzava per la città con i suoi pistoleros, protetto dalla Stasi tedesca. Quando Carlos andava in missione terroristica in Europa occidentale, mi spiegò ancora il magistrato, gli ungheresi furono autorizzati a fotografare i documenti che si trovavano nelle abitazioni della banda: «Dovevamo consegnare tutto, ma abbiamo fatto le copie: venga a Budapest e saprà tutto sui rapporti fra terrorismo e Kgb».

La Commissione bicamerale Mitrokhin di cui ero Presidente stava per chiudere i battenti avendo ultimato i suoi compiti ma, insieme al deputato Enzo Fragalà (uno squisito dandy e intellettuale palermitano) riuscimmo a vincere le resistenze delle sinistre e ottenere una rogatoria internazionale. Ci presentammo dunque a Budapest dove la Commissione fu ricevuta in un palazzo di stile sovietico-babilonese. Aleggiava ancora l'odore inconfondibile dei Paesi comunisti: varechina e scarpe vecchie, the perfect mix. Fummo accolti sontuosamente con tè, pasticcini, discorsi e grandi applausi per la ritrovata democrazia. Poi il procuratore si schiarì la voce e ci presentò un giovane maggiore in uniforme dal nome impronunciabile il quale issò sul tavolo una grande valigia di cuoio verde dagli angoli lisi. La aprì e mostrò il contenuto: pacchi di fogli ingialliti, contenitori di dossier a soffietto con la costa cartonata e disse: «Qui troverete tutto: nomi e cognomi, foto, date e recapiti degli uomini delle Brigate Rosse eterodirette dalla Stasi e dal Kgb e tutto ciò che abbiamo raccolto in questi anni». Mi sembrava di sognare. Chiesi: «Anche ciò che riguarda il rapimento e la morte di Moro?». Certo, disse. Tutto.

Troppo bello per essere vero. Infatti, ecco la postilla avvelenata: «Purtroppo non siamo liberi di consegnarvi questo materiale senza il permesso di quelli del piano di sopra». E chi sono quelli del piano di sopra? «Noi abbiamo un trattato con la Federazione Russa come ogni Paese dell'ex Patto di Varsavia e non siamo proprietari dei documenti di quell'epoca. Ma entro una settimana spediremo tutto per valigia diplomatica».

La fine è nota. Non arrivò nulla perché gli amici del piano di sopra dissero di no. Andai a protestare col un certo generale Ollo, l'uomo del collegamento con i Paesi della Nato, e quello allargò le braccia. Non possiamo farci nulla. Fine dell'illusione. Il tesoro restò sepolto. Pochi mesi dopo finì la legislatura e dunque anche la Commissione Mitrokhin. Non vorrei sembrare patetico con questo ricordo. Vorrei invece pronunciare un atto d'accusa. Non contro i russi o gli ungheresi, ma contro coloro che in Italia ebbero le informazioni che ho appena riferito (atti ufficiali di una rogatoria internazionale) che una Commissione del Parlamento raccolse con le stesse funzioni di un magistrato. Invece, tutti zitti. Come mai, pur avendo la notizia del tesoro contenente i legami del terrorismo italiano con i servizi segreti dell'Est, comprese le coperture di fiancheggiatori, esecutori e complici di delitti come la cattura, interrogatorio ed esecuzione di Aldo Moro, nessuno delle varie Commissioni e processi Moro Ter, Quater, Quinque e così via, abbia fatto un salto sulla sedia gridando che si doveva a tutti i costi recuperare il materiale di Budapest? Soltanto l'onorevole Enzo Fragalà, anima di quella rogatoria, insorse contro gli insabbiatori ma fu barbaramente assassinato a bastonate sotto la porta del suo studio il 23 febbraio 2010.

A questi ed altri eventi ho pensato leggendo gli eccellenti interventi ieri e l'altro ieri sul Giornale sul tema del terrorismo dopo il caso Battisti firmati da Alessandro Gnocchi e del mio ex consulente Gianni Donno, storico ed accademico. E vedo che ancora una volta si torna sulla segretezza di alcuni documenti e all'invocazione al governo affinché imponga di aprire la gabbia in cui la colomba della verità è imprigionata. Questo nobile impulso può essere, se preso da solo, alquanto fuorviante perché l'esperienza di investigatore storico mi suggerisce che la «ciccia» sia altrove che non in un armadio blindato. Ogni Commissione parlamentare ha infatti diritto di ottenere documenti, non importa quanto riservati, segreti o segretissimi, da tutte le agenzie ed enti dello Stato come magistratura, servizi segreti, polizie e carabinieri. Questi enti, a norma di legge, consegnano documenti su cui è scritto riservato, segreto o segretissimo e restano proprietari di questa classifica («classified» è la parola inglese per segretato).

Il Parlamento è autorizzato a leggere, ma non a riprodurre. Un consulente di Commissione può apprendere ma non può svelare l'originale. Io ho personalmente letto centinaia di documenti segretissimi (e come me ogni commissario) e posso garantire che dentro c'è soltanto burocrazia. Direte: dunque sarebbe tutto pulito? No, al contrario. Tutto è molto più sporco di quanto si immagini. Solo che il marcio è nascosto molto meglio. Un solo esempio: la mia Commissione deve moltissimo a un servitore dello Stato, militare e galantuomo (che non nomino per non arrecargli ulteriori danni) il quale ci spiegò a tutti e quaranta senatori e deputati che un documento si nasconde dandogli un nome diverso o cambiando la sua collocazione. Per la mia esperienza, i documenti ci sono, basta cercarli e i famosi «misteri italiani» sono tutti risolvibili. Ho trovato un documento della Stasi tedesca (il servizio segreto della DDR) che apparteneva a un magistrato illustre, ma era illeggibile per le righe nere della censura. Dandomi da fare ottenni lo stesso documento da una fonte diversa e appresi così che proprio il terrorista Ilich Ramirez Sanchez detto Carlos lo Sciacallo, dava conto ai suoi referenti tedeschi e russi di essere l'attentatore del cosiddetto «treno di Natale» del 1983, per cui furono condannati dei neofascisti. Qualcuno ha forse fiatato? Nulla.

Quando con la Commissione andammo a Parigi per un'altra rogatoria presso la Procura, non soltanto scoprii che il parquet dei magistrati inquirenti d'Oltralpe funziona, ma feci amicizia con il «Giovanni Falcone francese», ovvero Jean-Louis Bruguière, colui che ha stroncato le attività di Carlos e dei suoi affiliati terroristi arabi, il quale mi disse: «So da un ufficiale del Kgb che l'attentato al Papa del 13 maggio 1981 fu organizzato dal servizio segreto militare Gru sovietico che aveva assoluto bisogno di garantirsi lo spazio di manovra di una Polonia sgombra dal Papa e da Solidarnosc». Con Fragalà organizzammo e facemmo votare una analisi medico legale computerizzata delle foto dell'attentato in piazza San Pietro e scoprimmo attraverso i periti che l'uomo che era accanto ad Ali Agca mentre sparava al Papa era il signor Antonov, cioè il capo del servizio segreto bulgaro e referente delle forze armate sovietiche.

Le sinistre della Commissione, profondamente irritate, chiesero un secondo expertise di loro scelta, che però confermò senza esitazione il primo e fu questa la svolta e anche l'inizio della fine della più delicata e maltrattata inchiesta che il Parlamento abbia avviato e poi

con poco coraggio seppellito. L'accesso ai documenti è dunque molto importante e va sostenuto, ma senza nutrire illusioni superflue sulla localizzazione del tesoro. Il tesoro, vi assicuro, è in genere altrove.

(1 Continua)

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