«Quest'opera non ha nessun merito, ciò che facilmente si può supporre anche senza udirla». Sembra che il giudizio tombale emesso dal Censore Universale dei Teatri di Milano su Il paria (1829), melodramma di Gaetano Donizetti su libretto di Domenico Gilardoni, sia stato seguito alla lettera. Dopo sei repliche al Real Teatro di San Carlo di Napoli, allora prima scena operistica della Penisola, l'opera di Donnizzetti, scomparve.
Lo scrupoloso gazzettiere, avendo ricevuto notizie contradditorie («dalla candidezza più pura al nero della più profonda oscurità»), emise sentenza sulla base del sentito dire. L'esito di un'opera nuova non dipendeva solo da svarioni giornalistici, ma anche da cabale di concorrenti, capricci divistici, tagli censori, avverse condizioni climatiche, pandemie, e da fatti più contingenti, come la presenza, in questo caso raggelante, della famiglia reale: i Borboni erano calati in gran pompa la sera della prima per festeggiare «la fausta ricorrenza del Giorno Natalizio di S.A.R. il Duca di Calabria» (l'erede al trono Ferdinando, futuro «Re Bomba»).
Le Loro Maestà con corollario di principi e principesse reali ricevettero quasi tutti i «vivissimi applausi» a disposizione. I sudditi presenti, spremuti dai prezzi maggiorati dall'Impresario Barbaja, non fecero mancare attestati di stima alle stelle del canto scritturate: la signora Adelaide Tosi maritata con il conte Lucchesi Palli, il re dei passeggiatori sulle vette tenorili, Giovanni Battista Rubini e il colossale basso Luigi Lablache.
Quasi duecento anni dopo, un vindice, come si dice nella lingua del melodramma, ha smentito pregiudizi e sepoltura. Il riesumatore è Sir Mark Elder, direttore inglese a cui non solo i bergamaschi concittadini di Donizetti dovrebbero attribuire un'onorificenza specifica, per quanto si è prodigato nel far conoscere opere donizettiane attraverso esecuzioni in forma di concerto e seguenti incisioni per la benemerita casa discografica Opera Rara.
Elder ha realizzato incisioni di sicuro riferimento con adeguate formazioni sinfoniche e corali delle opere del periodo francese: Dom Sébastien, colosso eroico-funebre; Les martyrs, un Poliuto allungato in salsa alla Chateaubriand; L'ange de Nisida, sorprendente brogliaccio ricostruito; Rita ou Le mari battu, comica brillante e leggera in stile gallico; Le duc d'Albe nell'originale torso storico. In sua compagnia abbiamo scoperto la forza drammatica e la compattezza di questo Paria e, prima, dell'ignoto romeo e giulietta alla bolognese, Imelda de' Lambertazzi, senza dimenticare titoli celebri in esecuzioni complete e più che eccellenti come Maria di Rohan, Linda di Chamounix, Belisario.
Tornando al Paria, la vicenda è ambientata sulle pittoresche sponde del Gange, a Benares. Siamo in quell'India che viaggiatori e sacerdoti anglicani dell'Ottocento narravano bagnata dal sangue di misteri rituali perduti nella notte dei tempi.
Non potendo trattare tematiche che avrebbero fatto inorridire le più scaltre dame borboniche (i roghi-suicidio delle vedove, i matrimoni stabiliti, gli infanticidi selettivi, l'avviamento di sventurate bambine alla prostituzione in luoghi sacri), e tenendo presente come la situazione dell'infanzia nostrana non fosse così felice, Gilardoni si rivolse a un coevo dramma francese di Casimir Delavigne. Trattava dei paria, i reietti, i fuori-casta, i maledetti «per superstizione remotissima, riputati generati dalla polvere che copriva i piedi del Creatore Brahma, dannati a vivere nell'erme solitudini dei deserti», a non poter guardare un essere appartenente ad un'altra casta, «a segnare le fonti in cui spegnere la loro sete». Il tragico destino dei dalit, vittime di esclusioni e violenze omicide secolari, lungi dall'essere risolto nel subcontinente indiano, viene affrontato come in un film di Bollywood avanti lettera: i promessi sposi appartengono l'una alla prima casta; l'altro all'ultima.
Neala, figlia dell'onnipossente bramino Akebare, ama riamata l'eroe di guerra, Idamore. Il bramino la promette al soldato vittorioso per controllarne l'ascendente sul popolo, ma l'arrivo del Paria errante Zarete, padre in disperata ricerca del figlio, sconvolge tutto. La promessa sposa vince con l'amore la superstizione sacrilega; ma non eviterà di subire la stessa sorte di padre e figlio, vittime della furia omicida del bramino e dell'inesorabile legge delle caste.
I luoghi più affascinanti dell'opera sono quelli legati proprio alla misteriosa ritualità: l'eleganza ieratica del Coro dei Bramani («In questa a te sacrata antica selva») che apre l'opera; il vivace racconto della premonizione di Neala («Parea che mentre l'alòe») che sogna la contaminazione con un Paria; la scena madre per il tenore Rubini nel cimitero induista, dove Idamore manifesta la sua passione amorosa in una tessitura impervia (merito al tenore americano René Barbera che ha studiato la parte in pochi giorni, per salvare l'impresa); la non meno grandiosa scena notturna in attesa dell'agnizione padre/figlio in una grotta scolpita con le stragi dei Paria, un sacro macello da dove Zarete fuggì anni prima con la moglie defunta - occasione per conoscere la voce del georgiano Misha Kiria, timbro intenso e destinato a raccoglier gloria nei ruoli maggiori baritonali del teatro verdiano.
Prima di essere scannati, Idamore e Zarete cantano con tipico crescendo donizettiano lirico-eroico una sorta di profezia rivolta agli illuminati spettatori di domani: «La sorte di noi miseri,/ Le stragi e i tanti orrori,/ Ai tardi e colti posteri/ Il tempo additerà!/ E legge così barbara,/ Scudo degli oppressori,/ Sapran distruggere i popoli/ Di più lontane età».
Il tragico finale dell'opera non prevede la tipica aria belcantistica di bravura, dove la sventurata eroina ha modo di farsi applaudire come primadonna.
C'è invece un quartetto, veemente e drammatico, che cade come un colpo di scure.L'iniquità assoluta del bramino fondamentalista trionfa. E dietro la religione, il dio potere. Le ultime parole di gioia sono sue:« Regno! L'impero è mio! Di più bramar non so!».
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