Recita con una bassotta molto simpatica, ma a lui non piace stare davanti alla cinepresa con i quadrupedi. "Depresso, con un cane in braccio, Dio solo sa se mi piaceva portarlo a spasso per New York con un vestitino giallo indosso: io amo i cani, ma non sono un patito del genere", spiega Danny DeVito, l'eclettico produttore, regista e attore di origine campana (genitori di Capua) e molisana (nonni di Matera). È sull'Isola Verde come superstar del Global Fest, premiata con il Legend Award e per lanciare l'amara commedia Wiener Dog, presto sui nostri schermi con Lucky Red e a Ischia in anteprima europea. Travolgente, in assetto da gita in barca, lancia in aria caramelline colorate, spandendo intorno a sé allegria pura. Eppure, il personaggio che gli ha assegnato Todd Solonzd in questo American Beauty alla rovescia - per la cronaca, l'adorabile bestiola, dopo essere passata per le mani di una famiglia disturbata, un eroinomane, due affetti da sindrome di Down, un'anziana che lo chiama Cancer, cancro, "perché tanto dobbiamo tutti morire" -, viene travolta e uccisa da un Tir - reca già nel nome il destino. Di cognome, questo sceneggiatore rancoroso, fa Schmerz, che in tedesco significa dolore. Zero speranze, in Wiener Dog. Lui, però, Danny, di speranza ne regala molta. A partire dai suoi ricordi.
Il suo personaggio, in Wiener Dog, appare cinico e disperato, pronto a imbottire di tritolo la sua bassottina, pur di vendicarsi. Che cosa l'ha convinta ad accettare il ruolo di Mister "Dolore"?
"Quando mi arrivano le sceneggiature, leggo riga per riga. Saltando, ovviamente, le parti che non mi riguardano. Capisco subito se voglio fare, o no, un film. E qui, anche se ho un ruolo minore, Solondz ha saputo valorizzarmi: è un regista molto visionario, del quale ho visto ogni film. Sapevo che il mio ruolo era impregnato di dolore e, sebbene abbia lavorato soltanto sei giorni, ho potuto esplorare una parte diversa di me. Ecco la sfida giusta per un attore, mi sono detto".
Come e perché ha iniziato a fare l'attore?
"Per merito di mia sorella. Aveva un salone da estetista e, un giorno, m'ha chiesto: 'Perché non vieni a scuola da me?' Le ho risposto: 'Ti sembro un parrucchiere?'. Però, alla fine ci sono andato: mia sorella m'ha mostrato gli attrezzi... E, sorpresa, nel salone una volta trovai 30 ragazze, tutte insieme. Avevo 18 anni e capii perché dovevo stare lì".
Ma non sarà stata soltanto la scuola di estetista a spalancarle le porte di Hollywood...
"Certo che no. Ma, intanto, avevo un lavoro. Finita la scuola, mi trasferii a New York. Sempre mia sorella: Perché non impari il mestiere di truccatore e allarghiamo gli affari?. E la maestra che mi insegnava a truccare, insegnava anche a recitare. Mi iscrissi, così, a scuola di recitazione. Divenni un aspirante attore. Che, però, nel suo paesino del New Jersey, non era mai andato a teatro".
Qual è stata la sua prima prova da attore?
"Feci un esame, dovendo recitare un monologo. Uno choc, per me che frequentavo soltanto le sale cinematografiche. Sicché, mi ricordai di aver visto Marlon Brando recitare proprio quel monologo. Pensavo di fare il truccatore e sono finito attore. Mi sono bastate soltanto tre lezioni per abbracciare questo mestiere".
Che cosa non deve mai fare, un attore?
"Leggere le battute ad alta voce. Io ho questa tecnica: mentre leggo i copioni, lascio emergere il personaggio e cerco di capire come parlerà, come io diverrò lui. Mai declamare le battute a voce alta, per riuscire. Negli anni Sessanta e Settanta, ho imparato a scrivere tutto, poi, a declamare. Guardandomi allo specchio".
Quali difficoltà incontra un attore?
"Le stesse che incontra un regista.
Quando questi cerca un attore per il suo film, spera sempre che nella stanza entri la persona giusta, che supererà il provino. Quanto agli attori, l'inibizione è il primo ostacolo: occorre essere se stessi. Non è come vendere caramella, o quadri. L'attore vende se stesso. Prendi il toro per le corna, dico io".
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