L'ho sentito riferire come certo: la scienza ha provato che, al primo incontro, ci formiamo l'impressione di una persona in sette secondi. Bufala o risultato di studi affidabili? Prendiamola per buona, che la prima impressione fosse quella che conta lo sapevamo già, diciamo che ora ci focalizzeremo sui primi sette secondi.
Quando vado a trovare Giovanni Frangi non so nulla di lui, conosco solo i suoi quadri. Frangi dipinge la natura, ma dire semplicemente paesaggi sarebbe sbagliato, dire nature morte peggio ancora, dipinge la natura e basta, in un'area stilistica che sta tra realismo e astrazione. Ho evitato Wikipedia. Soprattutto ho evitato un libro uscito nei giorni della mia visita che si intitola L'intervista, un tutto-Frangi costruito su una serie di conversazioni con Luca Fiore, curate da Giovanni Agosti. Non voglio arrivare alla studio visit con qualcuno che mi ha già detto chi dovrei trovare, voglio i miei sette secondi vergini. Dunque conosco le opere di Frangi, so che ha tre anni più di me (è del 59) e so che è uno dei pochi artisti italiani viventi che da mid-career sta rischiando di diventare established, grazie alla lunga lista di personali, collettive, riconoscimenti, acquisizioni museali, testi critici. So anche che faccia ha, perché in internet ho cercato le foto. Vedendole, l'impressione che mi sono fatto è che sia di un'antipatia formidabile.
Via Spartaco è una traversa di viale Montenero, il che signfica circonvallazione interna, Milano quasi centro, zona ormai pregiata dal punto di vista immobiliare ma non nobile, piuttosto zona tradizionale della piccola borghesia, da Milano che lavora, da artigianato, case di ringhiera, ristoranti non di moda, negozi a dimensione umana. Quando con mia moglie suoniamo al citofono e una voce ci dice «in cortile, in fondo», sono teso. Colpa delle foto di internet, tutte ritratti di Frangi con lo sguardo duro, spazientito, i lineamenti tesi. E se si stesse chiedendo ma chi sono questi due, perché vengono a seccare? Poi ci accoglie sulla porta dello studio, ci stringe la mano, e in sette secondi lo adoro.
Frangi è un amicone. Ci andrei volentieri a pranzo in trattoria, a bere in un pub, in vacanza in moto. È esattamente il caro vecchio ragazzo milanese della mia generazione e non mi stupirei se negli anni '90 l'avessi incrociato quando da Pavia venivo in Conchetta, al Leoncavallo, al Capolinea, in Budineria. Porta occhiali con la montatura nera, un golfino grigio, chinos blu e Adidas nere. I capelli sono grigi ma ne ha ancora, e sorride come dentro un film di Salvatores o forse una canzone degli 883. Ci ha presentato un amico comune che è qui anche lui. Sa che faccio lo scrittore, questo amico gliel'ha raccontato, Frangi invece non sa che faccio anche il chimico. Quando glielo dico si illumina: «Anche mio padre era un chimico! Si occupava di tessuti, colorazioni, tinture». Lo abbraccerei. E quanto a secondi non siamo ancora a 30.
Nello studio c'era una falegnameria, Frangi è qui dagli anni '90. Non è uno spazio enorme, anche se non stiamo parlando di una stanzetta, saranno dieci metri per sei, con un soffitto molto alto. È un pomeriggio di sole, eppure di luce ne arriva poca, nello studio domina la penombra. C'è una grossa tela in lavorazione, lunga metri, su cui è accennato un paesaggio con edifici in nero su uno sfondo pallido, giallo. «Questa va a Palazzo Parasi, a Cannobbio, sul Lago Maggiore» ci dice il pittore milanese. E da qui, con il mio amico che con il commercio dell'arte ci lavora, Frangi inizia a raccontare delle sue committenze. Ci sono sue opere nella sede centrale del Credito Bergamasco. C'è il grande disegno sui muri della chiesa di Santa Gianna Beretta Molla di Trezzano sul Naviglio. E qui in studio ci sono dei lavori su tela, sistemati su telai curvi, che circonderanno le colonne della cappella dell'ospedale Gemelli a Roma. Sono tele azzure, lievi, acquatiche, alte metri, capaci di abbracciare un tronco d'albero, e sono posate lì in un cantone come se fossero una cosa dimenticata, protette dalla carta velina, che Frangi scosta per mostrarcele meglio. Ci sono altri quadri dietro un paravento, che tira fuori per noi, mentre altri quadri ancora sono poggiati contro le pareti, e oltre alle tele ci sono carte ammonticchiate. Ma quasi tutto è nascosto dietro cantoni e tramezzi, oppure la parte dipinta è rivolta verso il muro, come se ci fosse ritegno nel mostrarle, o come se le opere finite disturbassero Frangi nel dipingerne di nuove. Chiediamo di vedere i quadri in vendita, e questi escono dai pertugi segreti di questo primo grande locale e da una seconda stanzetta semi-inaccessibile, con il vano della porta talmente ingombro che si fatica a passare. Sono ninfee verdi dipinte su velluto nero, cannicci azzurri slanciati ed elegantissimi, carte chiare alte due metri, oppure carte più piccole infestate di colore, di rossi accesi, di arancioni e di viola, di blu notte, azzurro, acquamarina. Frangi lì mette lì con noncuranza, appoggiandoli al muro o posandoli su un asse tra due cavalletti, mentre parla di mostre, collezionisti, amici artisti, spesso usando i nomi e non i cognomi, e spesso questi nomi porgendoli alla lombarda, preceduti dall'articolo. Poi mia moglie vede delle tele piccole, lasciate in un angolo, e chiede a Frangi cosa sono e se le vende. Lui si stringe nelle spalle. «Ma no. Sono scarti». Manola insiste. «Altro che scarti» dice, le sembrano ottimi, le sembrano pezzi fatti e finiti che andrebbero valorizzati. E Frangi le dà retta. Questo il punto: le dà retta e ne parlano. Non ci conosce, mia moglie invece di complimentarsi per le opere che ci sta mostrando s'incapriccia degli scarti, e lui, anziché cambiare discorso o seccarsi, lui ci dà retta e accetta di parlarne con noi, illustri micro-collezionisti dalla provincia di Pavia.
A casa, la sera, finalmente leggo L'intervista. Scopro che Frangi è il nipote di Giovanni Testori, e che ha fatto le copertine delle sue ultime opere. Scopro che ha esposto in quel paradiso dell'arte contemporanea che è Villa Panza a Biumo, che hanno scritto di lui autori che ammiro come Picca, Doninelli, Busi, che nell'infinita serie di sue mostre personali una s'intitolava Giovanni a Gennaio, titolo sceso direttamente da quel racconto di Pier Vittorio Tondelli, Pier a Gennaio, che è una delle mie ossessioni.
Scopro che la sua conoscenza dell'arte è infinita, che è stato ovunque, ha fatto tutto, ha visto tutto, ha letto tutto. E sarà allora da questa consapevolezza tutto il mondo che ha visto che nascono la franchezza e l'understatement che in sette secondi mi hanno conquistato?
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