"La pittura non ammette progressi collettivi. Cerca vertigini passate"

I "colleghi" lo considerano il migliore autore italiano d'oggi. Lui dice: «Credo nell'involuzione»

"La pittura non ammette progressi collettivi. Cerca vertigini passate"

Nicola il Terribile, come chiamo Samorì per le torture che applica a colori e tele, è il pittore dei pittori, il numero 1 dell'arte italiana contemporanea secondo il giudizio di molti suoi colleghi. Parlo sulla base dei numeri: ho chiesto agli 87 migliori pittori italiani quale connazionale vivente percepissero come punto di riferimento e nella classifica che ne ho ricavato l'artista di Bagnacavallo è al primo posto. Per completezza di informazione: il numero 2 è risultato l'altro romagnolo (però residente a Los Angeles) Alessandro Pessoli, il numero 3 il romano Marco Tirelli. Ovviamente si può criticare il metodo, il campione, ma non credo che una giuria di critici d'arte o di galleristi avrebbe dato risultati più obiettivi. Ammesso che risultati obiettivi possano esistere: il filosofo inglese Nigel Wardburton ha dedicato ai criteri di valutazione delle opere un intero libro (La questione dell'arte, Einaudi) per arrivare alla conclusione che «la questione dell'arte probabilmente non ha risposta».

Marc Fumaroli lamenta che «eliminati i criteri del gusto, del bello, del sublime, del capolavoro, dell'originale, del talento, del genio, della maestria», perché una qualsiasi cosa diventi opera d'arte basta che venga esposta in una galleria d'arte. Condividi?

«Certamente: la spoliazione che Fumaroli ipotizza è l'arma vincente contro l'opera intesa come un aumento di senso della materia, legata a patti millenari fra gli uomini. Così il luogo dove il feticcio è custodito diventa il solo parametro per isolarlo dall'indistinto nel mondo. In questa prospettiva, che è già lo stato delle cose, si attua il sogno perverso della democrazia dell'arte e della moltiplicazione illimitata delle opere».

A proposito di valutazioni, trovo degradante che oggi il valore di un artista sia determinato dal suo prezzo (quotazioni, esiti d'asta...). Tu come vivi questa situazione?

«Prezzo e valore non sempre coincidono, anche se non vedo uno scarto importante rispetto al passato. La sola differenza è nel fatto che qualche secolo fa gli artisti più ambiti erano anche i più costosi, mentre oggi i più costosi sono i più ambiti».

Si può ancora parlare di arte contemporanea italiana o l'arte ormai non conosce confini?

«Certo che si può. La ragione per la quale il mio lavoro ha raccolto favori in moltissimi Paesi risiede nella sua impronta identitaria, nel fatto che non potrebbe essere stato detto altrove. C'è chi si oppone fieramente al codice Italia (come Vincenzo Trione l'ha ribattezzato) ma a mio avviso tutti i maggiori artisti italiani viventi parlano italiano».

E chi sono questi valorosi italiani italofoni?

«Enzo Cucchi, Maurizio Cattelan, Luigi Ontani, Roberto Cuoghi, Giuseppe Penone e altri ancora».

Non voglio accapigliarmi su questa lista e allora cambio discorso. Ha scritto il filosofo Franco Rella che tu continui ed esasperi l'opera di Bacon, il grande de-figuratore. Verrà mai il momento di re-figurare?

«Non mi ritengo un continuatore dell'opera di Francis Bacon, piuttosto una regressione consapevole del gesto di Lucio Fontana, trasformato in quello che Alberto Zanchetta, scrivendo del mio lavoro, ha definito assassinio della pittura: un rituale non dissimile da una performance, che inizia con la cura figurativa e si conclude con la collera de-figurativa. Più in generale stiamo ancora ispezionando la piaga dell'arte anche se da qualche tempo si sta, prudentemente, re-figurando l'arte. Forse perché il nostro è, in fin dei conti, un tempo figurativo».

Tu critichi gli artisti che, non confrontandosi con gli antichi, rifiutano ogni rapporto con la tradizione considerandosi ormai troppo bravi a dipingere in modo classico e perciò ansiosi di andare oltre.

«Non credo che nessuno possa ritenersi troppo bravo a dipingere in modo classico. Anzi, non ho mai incontrato nessuno troppo bravo a fare qualcosa. Conosco persone più brave di me, anche se la loro distanza da Mantegna o da Velázquez è tale che non basterebbero molte reincarnazioni a compensarla. Anche in questo è la meraviglia della pittura, un'arte non evolutiva, dove non si fanno progressi collettivi, ma si cerca sempre di ritornare a una vertigine che è già stata. Ti dirò di più: io credo nell'involuzione dell'arte, in una sorta d'invecchiamento fisiologico dell'umanità che ha perduto le energie dell'adolescenza, quando forgiava idoli colossali. Come un anziano, oggi la nostra specie ha bisogno della gruccia della tecnologia per farsi forza».

Tu sei per «l'art pour l'art» o secondo te l'arte deve prendere parte?

«L'arte è sempre dalla sua, di parte, e non sta né a destra, né a sinistra, e neppure al centro. Se questo accade si tratta di una postura di convenienza o di un residuo d'ingenuità, e tutti i militanti che ho incontrato si sono disinnescati da soli in poco tempo. Non credo nemmeno nella responsabilità sociale: l'artista è l'irresponsabile del lavoro. Diventare gli irresponsabili di un'opera: questo mi attrae».

Il pittore Daniele Galliano mi ha detto: «Quello che rimane nei secoli dei secoli sono le opere». Non la critica, non i contesti, soltanto le nude opere. Quale tua opera ritieni sia destinata a durare di più?

«Mi auguro di non averla ancora realizzata, tuttavia molte scorticature pittoriche del 2010-2011 iniziano ad avere i piedi ben piantati nel tempo».

Lo scrittore (romanziere, poeta, filosofo, eccetera) del presente o del passato sulle cui copertine, con i tuoi quadri, vorresti essere?

«Antonio Moresco. È già accaduto e spero accadrà ancora, perché la sua scrittura è un destino per le mie immagini».

L'autore (scrittore, filosofo, eccetera) che vorresti scrivesse un testo per un tuo catalogo?

«Cormac McCarthy».

Che cosa pensi delle mostre blockbuster contro le quali Vincenzo Trione e Tomaso Montanari hanno scagliato il loro pamphlet Contro le mostre?

«Qualche volta le visito e non mi procurano ulcere. La fabbrica dei mostri richiede molto tempo e confezionare la popolarità di un van Gogh dev'essere stata una cosa complicatissima. Non mi stupisce perciò che questa famiglia di mostri sacri (Leonardo, Caravaggio, Monet, van Gogh, Klimt, Picasso, Dalì, Warhol, Basquiat) sia sottoposta a uno sfruttamento intensivo. La storia delle forme non è di rapida masticazione e la differita è inevitabile per l'ingresso nel gusto. Poi, una volta entrati nelle grazie delle masse, questi artisti diventano poco a poco invisibili, e ogni nuova mostra è un passo in avanti verso la sparizione».

Come mai l'italiano medio è così refrattario all'arte italiana contemporanea? Colpa dell'italiano medio o dell'arte italiana contemporanea?

«Conosci popoli non refrattari all'arte contemporanea?».

Beh, David Hockney a San Francisco ha fatto 240mila spettatori paganti...

«Sono numeri importanti, certo, non dissimili però da quelli della mostra monstre di Hirst tuttora in corso a Venezia. E siamo sul suolo italiano, dunque. Poi queste rare vertigini numeriche non tengono il passo con lo sport, la musica leggera e nemmeno con la cucina. Non credo che l'umanità sia mai stata attratta in modo considerevole dall'arte a lei contemporanea».

Montale diceva che non è più possibile essere grandi poeti bulgari. Considerato lo scarso sostegno del nostro mercato, delle nostre istituzioni, del nostro pubblico, a livelli appunto bulgari, ritieni sia ancora possibile essere grandi artisti italiani?

«Senza l'orgoglio, persino la megalomania, di un popolo, non nascono segni superiori. Ecco perché essere grandi artisti italiani, oggi, è davvero difficile».

Essendo io un provinciale, apprezzo che tu abiti in provincia, anzi in un paese, Bagnacavallo.

Visto che a differenza di molti artisti che risiedono a Milano e a Roma tu fai mostre in mezzo mondo, questo dimostra che non è indispensabile vivere in una metropoli?

«Certo che no, anche se restare vigili, quando si vive in provincia, è fondamentale. La cosa più eccitante della genesi di un'opera è che si può creare una immagine indimenticabile con pochi mezzi e ovunque».

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