È dal Montaigne dei Saggi che Nicolas Bouvier prese in prestito «l'usage du monde» come titolo per il suo primo libro, e non sorprende che, nel renderlo in italiano, Maria Teresa Giaveri ricorra all'ambigua quanto felice immagine di La polvere del mondo (Feltrinelli, pagg. 425, euro 20 euro, introduzione di Paolo Rumiz), tanto quel racconto di un lungo viaggio attraverso i Balcani, l'Anatolia, la Persia e l'Afghanistan si caricava del peso e insieme della dispersione dei chilometri percorsi, dei paesaggi attraversati, dei volti conosciuti, delle esperienze raccolte e tuttavia scomparse, una sorta di gigantesco setaccio e insieme un memento di polvere, quella di cui è fatta la vita, quella di cui siamo fatti noi. Eppure, in quell'«usage» c'era anche qualcosa che alla dissipazione umana e delle cose era estraneo, un utilizzo e un'usura, un'abitudine e una consistenza, qualcosa che rimaneva e si imponeva, per nulla volatile, ma pesante.
Come osserverà lo stesso Bouvier nelle pagine finali, «un chilo di carne, di Shylock, lo so bene adesso, non c'è paese al mondo che non l'esige». O, detto in altri termini: «Pensate di andare a fare un viaggio, ma è subito il viaggio che vi fa, o vi disfà». La polvere del mondo porta la data degli anni Cinquanta: Bouvier era allora un giovane svizzero di 24 anni, un'infanzia da bambino cagionevole riscattata dalla fantasia che a quell'età supplisce l'impossibilità e/o l'assenza dell'avventura fisica: «È la contemplazione silenziosa degli atlanti, a pancia in giù su un tappeto, tra i dieci e i tredici anni, che mette la voglia di piantar tutto... Qualcosa in voi cresce e molla gli ormeggi, fino al giorno in cui, non troppo sicuri, si parte davvero». Il libro uscì più o meno un decennio dopo e il suo status di classico sta anche in questo, il sembrare scritto sul tamburo, una sorta di viaggio on the road e giorno per giorno, e l'essere invece il prodigioso quanto severo frutto di una rielaborazione, la maturità acquisita che ne conserva la freschezza, ma la arricchisce depurandola di ogni scoria. L'altro elemento della sua classicità sta nella nostalgia che il libro secerne, non intenzionale, ma non per questo meno palpabile.
Settant'anni dopo, quel lungo periplo fatto a bordo di una Fiat Topolino, si rivela al lettore contemporaneo impensabile e quasi incomprensibile per la scia sanguinosa che le sue tappe evocano: il Kosovo, l'Iraq, l'Iran e l'Afghanistan, il Pakistan, luoghi e nomi che sembrano essere stati inghiottiti da un demone meschino quanto maligno, orizzonti che sempre più recedono fino a costruirci intorno una invalicabile muraglia. Eppure, sino all'altro ieri, in fondo quasi sino a ieri, potevi raggiungerli e toccarli, viverci in pace, costruirci sopra un'educazione sentimentale. In ultimo, La polvere del mondo è il cantico innalzato alla lentezza, «il lusso più prezioso»: «Col tettuccio aperto, la leva dell'aria leggermente tirata, seduti sulle spalliere dei sedili e con un piede sul volante, viaggiamo placidamente a venti all'ora attraverso paesaggi che hanno l'accortezza di non cambiare senza avvertirti, attraverso notti di luna piena ricche di prodigi: lucciole, cantonieri in babbucce, modesti balli campagnoli ai piedi di tre pioppi, calmi fiumi dove a volte il traghettatore non si è ancora alzato e il silenzio è così perfetto che un sol colpo di clacson fa sussultare. Poi spunta il giorno e il tempo rallenta».
Un'epifania della lentezza che è tutt'uno con una sensibilità antimoderna, vigile, ma senza inutili recriminazioni. Viaggia a bordo di una macchina, Bouvier, sia pure una minivettura più somigliante a un giocattolo infantile che a un mezzo meccanico: è in grado di smontarla e rimontarla, aggiustarla e ridurla a misura come si potrebbe fare con l'abito che si indossa e che, sarti improvvisati, a ogni cambio di stagione ci si prova a reinventare. Eppure, «vorremmo uscire dal vicolo cieco in cui la troppa tecnologia ci ha ficcati: da quella sensibilità saturata dall'informazione, da quella Cultura distratta, di seconda mano». Allo stesso modo, «da noi la stoffa della vita è così ben tagliata, ordinata, cucita dall'abitudine e dalle istituzioni che, in mancanza di altro spazio, l'invenzione si confina in funzioni decorative e non pensa che a rendere le cose piacevoli e cioè tutto e nulla. Qui le cose andavano diversamente; la mancanza del necessario stimola, in certe situazioni, l'appetito dell'essenziale».
Tutto il libro è percorso dalla sottile magia di uno stile che sembra scivolare via sulle asperità e i contrasti, una sorta di musica silenziosa che si carica di una misteriosa felicità. Non c'è mai nulla di sentenzioso, non c'è nessun carico o caricatura ideologica. Il passaggio lungo la Jugoslavia di Tito, ancora fresca del grande scisma che l'ha separata dall'ingombrante presenza di Mosca, gli strappa appena l'osservazione che «la serietà è l'articolo preferito dalle democrazie popolari. Come sapere se l'ironia è retrograda o progressista?». Le rovine di Persepoli, la capitale bruciata dai conquistatori greci prima ancora che la sua costruzione avesse termine, gli comunicano l'idea che «la vicinanza del non finito e del demolito conferisce loro una sorta di amarezza ambigua: la tristezza dell'essere distrutto prima ancora di aver veramente vissuto».
Nota giustamente Maria Teresa Giaveri che La polvere del mondo rimanda più a «un viaggio nella scrittura» che non a una «scrittura di viaggio». Notazione importante nel sottolineare che, in specie nel travel writing, è lo stile a fare il libro, una sorta di estetica del vuoto, l'insaziabile, come dice lo stesso Bouvier, «fame di essenzialità, alimentata senza sosta dallo spettacolo di una natura dove l'uomo appare un umile accidente, e dalla sobrietà e lentezza di una vita in cui la frugalità uccide la meschinità».
Per quanto duro, faticoso, persino pericoloso quel viaggio si riveli, Bouvier lo fa risuonare della stessa armonia con cui ha decorato la portiera sinistra della sua Topolino con una quartina di Hàfiz a mo' di guiderdone: «Dieci anni di viaggi non avrebbero potuto ripagare quegli attimi. Quel giorno, veramente ho creduto di afferrare qualche cosa e che la mia vita davvero ne sarebbe stata inevitabilmente cambiata. Eppure nulla di ciò può essere acquisito in maniera definitiva. Come un'acqua, il mondo filtra attraverso di noi, ci scorre addosso, e per un certo tempo ci presta i suoi colori.
Poi si ritira, e ci rimette davanti al vuoto che ognuno porta in sé, davanti a quella specie d'insufficienza centrale dell'anima che in ogni modo bisogna imparare a costeggiare, a combattere e che, paradossalmente, è il più sicuro dei nostri motori».
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