Procaccioli, ecco le foto di un mondo in divenire

Emanuele Beluffi

Difficile trovare cornice migliore di corso Garibaldi a Milano per la personale di Matteo Procaccioli  negli spazi di Dream Factory. Da qui, alzando gli occhi al cielo, un milanese venuto dal passato sarebbe sbalordito dalla rivoluzione dello skyline che abbraccia la città del design diventata «the place to be» dai tempi delle fabbriche e della nebbia: la percezione del cambiamento del tessuto urbano che noi invece abbiamo visto in via di apparizione progressiva nel corso di questi ultimi anni lo sconvolgerebbe. Protagonista delle opere di Procaccioli, tutte fotografie che declinano nel campo pittorialista, è la fissità sussistente e muta di vestigia del passato presente: fabbriche immani, complessi industriali, antenne paraboliche su campi sconfinati, tralicci dell'alta tensione che si stagliano su un cielo glaciale maculato di ruggine e lavoro. Sono immagini che azzerano la presenza umana, ineffabili: per loro parlano i prodotti della tecnica.

Nella serie in mostra proprio l'uomo è il proprietario assente di queste «strutture», che le ha edificate e ci ha lavorato: cattedrali nel deserto, foreste di cemento pietrificate. Forse per questo non hanno titoli, ma codici: come il codice del DNA, che identifichiamo subito con l'uomo.

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