Ci sono due tipi di critici o saggisti: quelli che leggiamo perché ci interessa capire qualcosa di più dell'autore o della questione che stanno analizzando e quelli che leggiamo per capire e conoscere di più colui che sta invece scrivendo. Franco Cordelli appartiene a questa seconda categoria. Cosa vuol dire? Che Cordelli è uno scrittore, sia quando scrive romanzi (l'ultimo pubblicato lo scorso anno da Einaudi, Una sostanza sottile), sia quando scrive saggi. La sua attività critica è raccolta in più volumi. Dal primo, Partenze eroiche (pubblicato per la prima volta da Lerici nel 1980, poi da Gaffi nel 2013), ai due volumi stampati da Le Lettere nel 2002, Lontano dal romanzo e La religione del romanzo, fino a quello studio più teorico che è La democrazia magica (Einaudi, 1997).
«Il romanzo è morto». Quante volte abbiamo sentito questa affermazione. Molti gliel'hanno attribuita. Vuole spiegarci cosa intendeva?
«Ammesso che io l'abbia davvero fatta, che la formulazione sia stata una formulazione così secca e ultimativa, deve essere accaduto alla metà degli anni Ottanta. Lo deduco dal fatto che poco tempo dopo, uno scrittore in particolare, Marco Lodoli, me la rinfacciò in modo piuttosto duro. Essendo lui in quel momento uno scrittore esordiente, o poco più che esordiente, è comprensibile. Non ho risentimento per questa sua accusa. Mi impressiona che mi abbia accompagnato per trent'anni. Perché lo avrebbero rinfacciato proprio a me, laddove tutta una generazione precedente lo aveva non solo detto ma dimostrato o fatto in modo di dimostrarlo? Penso dipenda dal fatto che, nell'aver continuato personalmente a scrivere romanzi, non ci fosse in me nessuna volontà di dimostrazione, né della morte del romanzo né della sua sopravvivenza. Suppongo che il mio pensiero fosse più ambiguo, fosse un pensiero doppio. Da una parte c'è una forza irresistibile che obbliga gli uomini a raccontare storie, dall'altra ci sono tanti modi per farlo. Il romanzo di cui si parlava, e di cui parlavo anche io, era naturalmente il romanzo nella sua forma tradizionale. Si intendeva: «è morto il romanzo tradizionale». Si trattava insomma di una sollecitazione, prima di tutto a me stesso, a cercare una terza via, ovvero vie nuove. Ma non esistono vie nuove, esistono solo vie personali. Intendevo dire: che ognuno si trovi la sua risposta e che questa risposta possibilmente ci sorprenda».
Qualche anno fa ha scritto su La Lettura del Corriere della Sera di una letteratura impantanata. Se si fa parte di uno di quei clan si può sperare di ottenere qualcosa, altrimenti si resta fuori da tutto. Un grido d'allarme che in pochi hanno raccolto.
«Non era un grido d'allarme, non c'era niente da raccogliere, non c'era alcuna possibilità che le cose andassero diversamente da come sono continuate ad andare. Il punto è che della morte del romanzo nei trent'anni intercorsi tra l'affermazione a cui ho appena risposto e oggi, è sopraggiunta la forma vera, integralista. Se ne è data una ben più radicale. È avvenuta con la sostituzione della qualità con la quantità. Morte di un genere letterario per asfissia, per sovrabbondanza, per impossibilità di scelta, per crescente impossibilità di valutazione anche di primo acchito. Anche qui le cose sono duplici. In questo processo c'è una legittimità di fondo, che è quella della alfabetizzazione universale e della bellezza che a parlare (ovvero a raccontare storie) siano mondi diversi, voci prima mai sentite. Però in questo processo di mutamento epocale dell'accesso alla narrazione c'è anche un elemento meccanico determinato dallo sviluppo tecnologico che consente una velocità di composizione e trasmissione del racconto, di qualunque genere esso sia, tale da sopraffare il ricevente».
La critica, in questa situazione, quali responsabilità ha?
«La critica ha perduto potenza e incisività perché i tempi sono in tutte le cose più veloci. Perché l'elemento composizione (che implica una crescente presenza dell'editoria) e l'elemento necessità personali, vanno sempre più allontanandosi l'una dall'altra. Quello che era una volta per l'editoria la semplice necessità di far conoscere un prodotto, ossia di divulgarlo, adesso è diventato anche un elemento di sopraffazione all'interno dello stesso gruppo editoriale tra un prodotto e l'altro. Di fronte a un quadro del genere il critico è un povero uomo, è un singolo stravolto dalle urgenze e appunto dalle abbondanze. Sempre più, poiché c'è comunque un elemento artigianale, di lavoro per vivere, la critica tende ad adattarsi al processo in corso. Tende cioè a smussare, alleggerire, sveltire il suo stesso messaggio. Il che ovviamente non impedisce che come vi sono ancora bei romanzi, difficili da individuare, vi sono anche critici più resistenti alle sollecitazioni».
Anche della critica letteraria si è spesso celebrato il funerale. Ma la sua esistenza, senza un contesto, cioè senza quella che un tempo veniva chiamata «società letteraria», chi può ancora garantirla?
«Infatti non ha garanzia alcuna e non stiamo parlando di un certo numero di persone, anche consistente e quindi riconoscibile. Stiamo parlando di singoli individui che agiscono più per passione che per necessità di lavoro. Questo genere di individui è inestirpabile. Questi critici sono come i santi. E penso, per esempio, a Giulio Ferroni, Giorgio Ficara, Niccolò Scaffai».
Recentemente, ancora su La Lettura, ha demolito due scrittori che negli ultimi anni hanno trovato l'attenzione di migliaia di lettori: Kent Haruf e John Williams. Lei nota che i loro romanzi (in special modo Benedizione e Stoner) sono consolatori. È proprio in quel sentimento di consolazione che risiede il loro successo?
«Questa parola, consolazione, è antica. Risale, almeno per me, ai tempi di Elio Vittorini. Naturalmente è un termine generico e, per così dire, allegorico. Racconti davvero belli, di contenuto davvero doloroso, poniamo i racconti di Salamov, non sono forse consolatori? Lo sono però in modo diverso, più profondo e, diciamo, con una parola sola, reale. Ciò che ci consola è che sentiamo che la loro bellezza è un processo di trasformazione del dolore. In essi c'è già un principio di redenzione, che è molto più della consolazione».
Pur recensendo narrativa straniera, lei conosce molto bene l'opera di molti autori italiani contemporanei. Anche qui le mode sono solidissime. Pure quando le mode sono anteposte alle leggi del mercato, sembrano agire in uguale forma; come se tutti non volessero perdere l'occasione di salire sul carro del vincitore. Solo un fattore di costume, o di ipocrisia?
«Intanto premetto che purtroppo la mia conoscenza di autori italiani contemporanei non va oltre i nati nei primi anni Ottanta, ma di questa ultima generazione, quelli che conosco, sono persone che in qualche modo si sono avvicinate, magari mandandomi i loro libri. In generale, suppongo agiscano entrambe queste necessità. Quella che riguarda il costume è ovvia, c'è sempre stata. Se guardiamo al passato distinguiamo la storia per periodi, nei quali si scriveva, si dipingeva o si componeva in modi analoghi e che oggi riconosciamo analoghi tra loro. La questione dell'ipocrisia è più complessa, difficile da valutare. Suppongo sarebbe da valutare caso per caso. Ognuno, in cuor suo, lo saprà. Saprà qual è la sua colpa, ossia la sua ubbidienza. Per quanto ci è dato vedere, ossia per ciò che esce dall'intimità da ciascun singolo ipocrita, è stupefacente ancora una volta la rapidità di esecuzione, ossia di adeguamento. Cito sempre il caso Starnone, scrittore medio quant'altri mai, una specie di Williams o Haruf italiano.
Dopo trent'anni di attività da tutti trascurata nonostante un Premio Strega, come mai nel 2016 è stato da tanti riconosciuto come uno dei maggiori scrittori italiani? Si trattasse di un critico che lo ha letto in ritardo ci sarebbe una logica. Ma che questo sia successo a tanti contemporaneamente è sospetto. Inutile specificare che il nome Starnone vale il nome Ferrante. Può essere una spiegazione».
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