Quando Gide andò in Africa e soffrì il mal di colonialismo

Torna il suo "Viaggio al Congo", sulle tracce di Conrad Immune da ogni esotismo, cercò l'"altro", trovò se stesso

Quando Gide andò in Africa e soffrì il mal di colonialismo

Nel 1925, quando André Gide decise di andare in Africa, l'Africa era già di moda e di casa a Parigi. La regina incontrastata delle sue notti era Josephine Baker, con le sue piume di struzzo, il gonnellino di banane, il sederino color ebano ad accompagnare una danza che, stando all'etnomusicologo André Schaeffner, «sembrava quella di un pollo, ma era irresistibile». Lo spettacolo si chiamava Revue negre, andava in scena al Théatre des Champs-Elisées e faceva un po' tutt'uno con l'età del jazz che era sbarcata in Europa con le truppe americane al tempo della Grande guerra e da allora non se n'era più andata. Vi si mischiava un'estetica «primitiva» di maschere, statuette e sculture a cui l'avanguardia pittorica, Picasso in testa, aveva dato nuovo impulso, uno stile di vita in cui la musica, il ballo, il bere, il fare liberamente all'amore, l'esotismo di un eden di colore suonavano come una sfida a quella che si riteneva una civiltà in disarmo perché bianca, in crisi di identità perché razionale e occidentale. Il nero non era solo il colore delle notti, era anche quello del sacro e dell'inconscio, delle trance e dell'irrazionale e non è un caso che proprio in quel 1925 in cui Gide scopriva l'Africa profonda, a Parigi venisse fondato l'Istituto di Etnologia, con il sociologo Marcel Mauss e l'etnologo Paul Rivet chiamati nell'impossibile compito di conciliare tribalismo e colonialismo...

Su questo punto torneremo dopo, prima però vale la pena di dire ancora qualcosa sull'illustre viaggiatore che, titolare di una missione approvata dal ministero delle Colonie francesi, stava facendo rotta verso l'Africa, avendo il Congo come meta finale. Voyage au Congo si sarebbe infatti intitolato il resoconto di quel viaggio, che oggi il lettore italiano ha nuovamente a disposizione (Viaggio al Congo, De Piante, pagg. 270, euro 20; traduzione di Franco Fortini, introduzione di Pier Luigi Vercesi). Gide andava allora verso i sessant'anni, era ancora considerato un maestro dalla generazione che negli anni Venti aveva ancora vent'anni, si era imposto nel primo '900 come il teorico disincantato dell'egotismo e del disimpegno, del piacere senza dolore, della trasgressione senza altri fini se non la rivendicazione della propria libertà. Era un classico e insieme un moderno, ma nell'intraprendere quel viaggio c'era molto più '800 di quanto non potesse accorgersi, rispetto al '900 che intanto gli era cresciuto intorno. Il suo nume tutelare era Joseph Conrad, la sua idea dell'Africa era tutt'uno con le fantasie adolescenziali accarezzate quando il XX secolo era ancora un lontano orizzonte e il continente nero un coacervo di esplorazioni, natura, belve feroci, spiritualità e mistero. « - Che cosa andate a cercare laggiù? - Aspetto d'esser laggiù per saperlo» dice a un ignoto compagno «di traversata» nel «terzo giorno di mare» che apre il libro, ma, come nota Pier Luigi Vercesi nella sua partecipe introduzione, nelle prime settimane di viaggio il suo interesse è «più alle farfalle che alle persone», la spia di una solitudine che si alimenta da sé, che si autoesclude per evitare ogni esclusione che la società possa praticare nei suoi confronti.

È carico di libri, Gide, nel suo viaggio. Si è portato le Favole di La Fontaine, il Faust di Goethe, Romeo e Giulietta, i drammi di Racine... È insomma, agli occhi dell'avanguardia surrealista che in quegli anni Venti si accinge a processare la generazione che l'ha preceduta, il simbolo vivente del passato, romantico e decadente, dell'uomo bianco che ancora vorrebbe farsi re. Nel suo I ferventi. Gli etnologi francesi tra esperienza interiore e storia (1925-1945) (Mondadori Università, pagg. 352, euro 27 euro), Renzo Guolo coglie perfettamente questo punto. Allo stesso modo degli etnologi che lo abbiamo visto, proprio allora vengono alla ribalta, i surrealisti «rifiutano l'idea esotica del viaggio», nient'altro che nostalgia piccolo-borghese, impossibile sogno d'evasione. Non è l'allontanamento fisico dalle società occidentali a favorire ogni esperienza interiore, non è lo spostamento avventuroso a farci conoscere meglio ciò che siamo.

Con Gide però i surrealisti cascano male. Non tanto perché Gide, perfetto erede in questo di Chateaubriand, in qualsiasi viaggio è sempre e solo di sé stesso che è andato in esplorazione, e quindi è immune da ogni esotismo. Ma perché, via via che il viaggio procede, egli si accorge che «meno intelligente è il bianco, più gli pare stupido il negro». Proprio perché il suo nume tutelare è Conrad, è da Cuore di tenebra che ha appreso «lo straordinario sforzo di immaginazione che ci è stato necessario per veder, in quella gente, dei nemici». Come lui, il colonialismo gli si svela nella sua incapacità a comprendere: «Con quanta facilità li potremmo avere dalla nostra parte! E che arte diabolica, che perseveranza nell'incomprensione, che politica di odio e di cattiva volontà ci è voluta per poter giustificare le brutalità, le esazioni e le sevizie!».

C'è però un problema. Il suo Viaggio al Congo Gide lo sta facendo grazie al ministero delle Colonie, è in missione ufficiale insomma, per certi versi è, quanto a critiche, in conflitto di interessi. Il ministro delle Colonie del tempo si chiama Daladier, è un esponente del Partito radicale alleato dei socialisti al governo, è lo steso uomo che ha permesso la nascita e il finanziamento dell'Istituto di Etnologia. Mettere in discussione il colonialismo è insomma impossibile, auspicare un «colonialismo riformato» un'illusione. Paradossalmente, ogni riforma minaccia e insieme rafforza l'idea stessa di etnologia, che se da un lato mira a custodire memorie locali, riti, miti, lingue, istituzioni, manufatti, dall'altro le vuole salvaguardare perché ne intuisce l'estinzione a fronte del progresso. Così, come nota Guolo, le popolazioni indigene dell'Africa «si trovano doppiamente ostaggio: della politica coloniale e di una pratica etnografica vissuta come invasiva». Gli etnologi-etnografi non sono altro che una variante dei razziatori-avventurieri di un tempo. Quelli saccheggiavano le ricchezze, questi collezionano reperti con cui arricchire i loro musei.

Senza essere un etnologo, Gide avverte l'impasse. Ogni volta che critica la burocrazia, nei trasporti, nei rifornimenti, nel personale, sa che sta picconando l'istituzione. Di qui un continuo circoscrivere gli episodi, rendere onore a quei funzionari che si dimostrano invece efficienti e umani. E però: «Non basta che io mi dica, come si dice frequentemente, che gli indigeni erano ancora più disgraziati prima dell'occupazione francese. Abbiamo assunto verso di loro responsabilità cui non abbiamo più il diritto di sottrarci. Ormai un immenso gemito è dentro di me; so cose da cui non so trarre le conseguenze. Che demone mi ha spinto in Africa? Di che cosa andavo in cerca, in questo Paese? Ero tranquillo. Ora so; devo parlare».

Pubblicato, Viaggio al Congo farà scalpore e in fondo aprirà una strada. Pochi anni dopo, nei suoi reportage africani, Georges Simenon ne trarrà le debite conseguenze: «L'Africa? Credetemi, prima o poi ci risponderà merda! E farà bene»... Nel 1933, con il suo Viaggio al termine della notte, Céline, che l'Africa l'aveva sperimentata non da scrittore, ma da «colonizzatore», ci metterà su la pietra tombale, la natura e l'orrore, ancora e sempre il cuore di tenebra conradiano.

Gide intanto se n'era andato in Russia, non gli era piaciuta e lo aveva

scritto. I surrealisti, che avevano applaudito la sua denuncia del colonialismo, non applaudiranno quella del comunismo. È solo un vecchio pederasta sentenzieranno. Per chi aveva scritto L'immoralista era un complimento.

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