Questa crisi insegna ai ragazzi il valore della libertà e del limite

Per i giovani la reclusione forzata è più dura. Può però diventare un'opportunità per ripensare il futuro

Questa crisi insegna ai ragazzi il valore della libertà e del limite

Adesso capiscono cosa sia la libertà, capiscono cosa significhi incontrarsi, abbracciarsi, darsi uno spintone o un bacio. «Quando posso tornare finalmente a scuola, papà?». Ho risposto a mio figlio (16 anni) che gli avrei fatto firmare quella domanda con l'ora, il giorno e l'anno, a futura memoria. Anche i ragazzi più umili hanno tutto, hanno quella libertà che la nostra cultura occidentale si è conquistata, e finalmente ne riconoscono il valore proprio perché viene loro sottratta.

Per noi, che viviamo nella stessa condizione di reclusi, è diverso: siamo impediti di fare, loro di essere. Scoprono il fascino irrinunciabile della socialità. Sono stati rimproverati, umiliati, derisi dagli adulti per il loro abuso, per la loro dipendenza dal telefonino, quello strumento del demonio che impedirebbe il rapporto concreto con l'altro, con la realtà fisica. Sono state dette e scritte miliardi di parole sulla virtualità che distrugge le menti dei giovani: prevalentemente sciocchezze.

In questi tempi di segregazione forzata, il desiderio dei ragazzi di trovarsi a scuola, testimonia un dolore non immaginabile: la privazione del corpo dell'altro. E vogliono trovarsi proprio nel luogo che solo qualche settimana fa sarebbe sembrato il più alienante, il meno accogliente per un incontro: la scuola che è diventata la nostalgia del loro vero mondo, campo di battaglia, scena dell'amore.

Per noi adulti c'è l'ansia per come riprendere dopo i danni dell'epidemia: per i ragazzi c'è l'ansia di poter continuare al più presto ciò che hanno dovuto interrompere. Scoprendo il valore della libertà e della socialità, questa generazione digitale ha capito quanto siano fragili le conquiste di questo mondo. Ciò che stupisce mio figlio è il rimedio all'epidemia: è mai possibile che per debellare il virus, la principale condizione sia quella di restare a casa e di lavarsi le mani? Ma non viviamo in un'epoca in cui la tecnologia raggiunge vette impensabili, la scienza consente di oltrepassare i confini della Terra per andare verso le stelle?

L'anno scorso mio figlio ha letto a scuola I promessi sposi: Manzoni, raccontando la peste, scrive che la gente per sfuggire al contagio doveva rimanere a casa. E oggi come quattrocento anni fa? Hai voglia di spiegargli che i virologi, gli infettivologi ci sono oggi e non c'erano ieri, che la medicina ne sa più oggi di ieri. D'accordo, mi risponde, ma tanta scienza a cosa serve se, come quattrocento anni fa, ti chiede di non muoverti di casa e di lavarti bene le mani per non infettarti?

Con enfasi gli dico che oggi c'è cultura e non superstizione, che con cognizione di causa possiamo comprendere gli eventi. Cultura? Consapevolezza? Guardiamo la televisione, ascoltiamo come il virologo se la prende con l'infettivologo, l'opinionista s'inalbera per le restrizioni imposte, litigando con l'altro di parere diverso. C'è voglia di cambiare canale, ma quando la polemica diventa politica, obbligo mio figlio a non perdere una parola di quello che si dice.

La politica è l'organizzazione della società attraverso principi e regole, e la conflittualità che esibisce, discutendo sul modo in cui noi dovremmo difenderci dal virus, riflette il suo reale disorientamento di fronte a un dramma che invece pretenderebbe una guida autorevole, sicura, competente.

Un ragazzo vuole certezze, il dubbio genera ansia, le indecisioni politiche, giornalistiche sono per lui una provocazione rispetto a quel percorso di formazione che gli dà la scuola. Lui ha imparato che un'equazione è giusta se i suoi termini sono valutati correttamente, un avvenimento storico accade in un periodo e non in un altro, una legge della fisica è tale perché è ineccepibile. Gli errori si calcolano e diventano voti. Solo questa rigorosa formazione sviluppa un pensiero critico, tenendo lontana la dilettantistica anarchia delle opinioni. Un ragazzo apprende tutto questo in una buona scuola, apprendimento che non si rispecchia nel dibattito politico e nel mondo della comunicazione.

Le preoccupazioni per la salute e per le conseguenze economiche dell'epidemia sono enormi ed è inevitabile che sia così: come sarà la ripresa, con quali sviluppi? Domande più che lecite, senza chiare risposte. Ma i ragazzi sono molto più avanti di queste domande. Torneranno a scuola dopo aver patito l'assenza di libertà, torneranno dopo aver sentito sul loro corpo il fascino di una socializzazione che la relazione virtuale non potrà mai dar loro. Ma che giudizio si saranno fatti della nostra socialità, della nostra comunità scientifica e politica?

Hanno sperimentato durante la loro costrizione quotidiana quanto sia precaria e fragile la nostra esistenza (per comprendere ciò sarebbe bastato un bravo insegnante e un attento genitore), ma rispetto a ciò avranno fatto un passo avanti, riflettendo sui limiti della scienza che era pensata invincibile e potente nella sua costruzione di un super uomo dominante su tutto: limiti che, invece, vanno oltrepassati con lo studio continuo e con molta umiltà.

E un altro passo avanti verrà fatto, riflettendo sulle lacune della politica che avrà sempre più bisogno di una classe dirigente autorevole e di assoluta competenza, perché, comunque, all'improvviso potrà essere messa alla prova da eventi terribili e sconosciuti.

Di fronte a tali incertezze politiche e illusioni scientifiche, avremo la fortuna di una nuova consapevolezza: saranno proprio i

nostri ragazzi a pretendere una scuola sempre migliore, la scuola che è il loro vero, insostituibile mondo di formazione. Una consapevolezza che sarà probabilmente l'unica cosa positiva lasciataci in eredità dal coronavirus.

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