Da "Quinto potere" a Benigni: il copione copiato di "Superstar"

Pochi lampi originali nel film di Giannoli sul fascino perverso della tv. E tra i modelli "saccheggiati" il ruolo del comico nell'ultimo film di Allen

Da "Quinto potere" a Benigni: il copione copiato di "Superstar"

nostro inviato a Venezia

C'è una scena in Superstar, il film di Xavier Giannoli presentato ieri in concorso, in cui il protagonista, l'anonimo Martin Kazinski catapultato al vertice di una inspiegata celebrità, protesta il suo rifiuto. «Basta. Non ne voglio sapere di fare televisione», sbraita in faccia all'editore televisivo che gli replica: «Perfetto. La trasmissione potrebbe cominciare con questa frase, gridando la tua rabbia». I giornalisti in sala ridono. È l'esemplificazione perfetta della prigione dei media. Un labirinto, un ingranaggio infernale dal quale sembra impossibile uscire. Quello rivendica il suo diritto a riprendersi la sua vita normale, l'altro vuol trasformarlo in uno strumento per alzare l'audience. Kazinski vuole vivere, l'editore fare ascolti e soldi.

Ecco qua. La televisione e i media in generale sono un tritacarne dal quale - se un giorno ci entriamo per caso - non riusciamo più a uscire. Ne siamo fagocitati, schiacciati, centrifugati. In una parola, ne siamo usati, fino a quando, improvvisamente e senza una ragione precisa, allo stesso modo in cui tutto era cominciato, veniamo scaricati di lato, qualche volta patendo le conseguenze di un'ostilità gratuita. Spremendo, è questo il succo di Superstar, film tratto dal romanzo L'idolo di Serge Joncour, che, volendo trovare un filo conduttore con uno dei temi centrali della Mostra, vorrebbe denunciare «il fondamentalismo dei media».

43 anni, celibe, Martin Kazinski (il bravissimo Kad Merad) è un uomo qualsiasi, pelato e dimesso, che lavora in una ditta di riciclo di computer. Improvvisamente, una mattina sul metro, la gente prende a fotografarlo con i cellulari, a chiedergli l'autografo, ad applaudirlo. «C'è un errore, un malinteso», ripete lo spaesatissimo Martin. Su internet e i social network cominciano a circolare le foto e i video del nuovo idolo che ripete instancabilmente «non voglio essere famoso». Proprio «per questo ti amiamo», gli ribattono. La paranoia collettiva arriva subito alle orecchie dei produttori di un network televisivo che, grazie a Fleur (la convincente Cécile De France, qui ancor più magnetica con chioma ramata), lo persuade a partecipare al programma in prima serata nel quale raccontare la storia «dell'uomo che non voleva essere famoso». Ora, all'irrazionalità della gente comune si aggiunge l'invasività dei media in una spirale perversa sempre più fuori controllo. Che, tra l'immancabile citazione dei «15 minuti di celebrità» di Andy Warhol e i poco credibili tormenti della giornalista divisa tra il letto del direttore e i rigurgiti ideali di gioventù, corre verso un finale che si annuncia tragico. Invece, scontentando una parte dei giornalisti presenti alla prima, Giannoli ha scelto un happy end. Ma solo «per lasciare un elemento di speranza», sottolinea lui rivendicando totale autonomia nella scelta del finale.

In realtà, di Superstar è ben altro che non convince. Intanto, la ripetitività del tema già trattato in numerosi altri film, uno su tutti Quinto potere di Sidney Pollack. E poi la totale identità della trama con l'episodio di Benigni in To Rome with Love di Woody Allen. «Ho una folle ammirazione per Allen», ha premesso Giannoli, «ma il romanzo al quale ci siamo ispirati è molto precedente, del 2005. Quando l'ho letto mi ha molto incuriosito il sottotitolo che parlava di un uomo diventato famoso senza sapere perché. Questa mancanza di una ragione mi ha fatto venire in mente il protagonista di Metamorfosi di Kafka che da un giorno all'altro si trasforma in scarafaggio. La letteratura e la pittura moderne sono attraversate da una dimensione dell'assurdo che mi ha sempre affascinato. Non spiegando il motivo di quella improvvisa celebrità, ho voluto dare spazio a questo mondo assurdo». Purtroppo in Superstar non affiora niente della potenza evocativa di Kafka, né del crollo epocale contenuto ne Le illusioni perdute di Balzac, ancora citate dal regista.

In Superstar c'è solo uno stranito operaio che traccia con il rossetto punti interrogativi sugli specchi e continua a chiedersi «pourquoi?». Ce lo chiediamo anche noi: perché rifare un film su un argomento già sviscerato senza aggiungere nulla di nuovo? Potenza dell'assurdo.

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