Cultura e Spettacoli

"Racconto il Ruanda tra siccità, antichi riti e l'inizio dell'odio"

La scrittrice in "Kibogo è salito in cielo" indaga le radici comuni di un Paese dilaniato

"Racconto il Ruanda tra siccità, antichi riti e l'inizio dell'odio"

Scholastique Mukasonga ha lasciato il suo Paese, il Ruanda, quarantanove anni fa. Nel 1973, a diciassette anni, a causa delle persecuzioni contro i tutsi è fuggita in Burundi; poi, nel 1992, è arrivata in Francia, dove vive tuttora e la sua opera è stata riconosciuta, fra gli altri, con un Prix Renaudot. Ha raccontato la sua storia nel memoir Inyenzi ou les cafards, pubblicato da Gallimard, e les cafards sono gli «scarafaggi», uno dei nomi con cui venivano definiti i tutsi ai tempi del genocidio del '94. Kibogo è salito al cielo, pubblicato da Utopia (pagg. 126, euro 18), è il suo secondo romanzo ad apparire in Italia, dopo Nostra signora del Nilo (66thand2nd, 2014): parla del suo Paese a metà del '900, di una grande siccità (come oggi...) e dei tentativi degli abitanti di un villaggio di far scendere la pioggia, fra l'adesione, non sempre spontanea, alla religione cristiana e i ricordi di antichi riti e leggende, legati alla figura di Kibogo, la cui storia ricorda proprio quella di Gesù...

Scholastique Mukasonga, come è nata l'idea del romanzo?

«Ogni sera, intorno al camino, mia madre Stéfania ci raccontava le leggende della tradizione ruandese. Nel suo inesauribile repertorio ritornava spesso quella del principe Kibogo, che salì in cielo per riportare la pioggia in Ruanda, minacciato da una grave siccità. Al catechismo i missionari ci hanno raccontato la storia della resurrezione al cielo di Gesù: come si fa a pensare che le due storie non siano collegate?»

Quindi la leggenda di Kibogo esiste davvero?

«Non l'ho inventata io. Le tradizioni orali ruandesi hanno spesso per protagonisti degli eroi chiamati abatabazi, i salvatori. In tempi di guerra o di calamità naturali, gli indovini di corte chiedevano a una persona di alto rango, talora al re in persona, di sacrificarsi per salvare il Paese. Il rito, definito a sua volta abatabazi, potrebbe essere paragonato alla devotio romana, il cui esempio più famoso, secondo Tito Livio, è quello del console Decio Mure».

E in questo caso?

«Nella corte del re c'era una capanna-santuario dedicata a Kibogo: essa era presieduta da una vestale, responsabile del culto. Il mio personaggio, Mukamwezi, è proprio una vestale, che il cristianesimo ha bandito».

In effetti, nel romanzo il Ruanda appare quasi una terra di conquista religiosa, fra paganesimo e cristianesimo.

«La colonizzazione belga si fondava essenzialmente sulle missioni cattoliche, alle quali era affidata l'istruzione. Nel 1931 il re Musinga, che si opponeva al controllo coloniale e missionario, fu deposto e sostituito con uno dei suoi figli, favorevole invece al battesimo: questo portò alla conversione dei chef, che a sua volta portò alla conversione di gran parte della popolazione».

Con questo scontro religioso voleva anche rimandare al tragico conflitto civile che ha insanguinato il suo Paese?

«Vorrei innanzitutto sottolineare che hutu e tutsi non sono gruppi etnici: tutti i ruandesi parlano la stessa lingua, vivono gli uni accanto agli altri e condividono la stessa cultura. L'appoggio che i belgi e la Chiesa hanno dapprima garantito ai tutsi, e poi il rovesciamento dell'alleanza per paura del comunismo al momento dell'indipendenza, spiegano in parte il genocidio dei tutsi nel 1994. La fine del romanzo può essere ambientata nel 1959, anno in cui scoppiarono i primi pogrom contro i tutsi».

Può raccontare come la guerra ha colpito lei e la sua famiglia?

«La mia famiglia è stata deportata nel 1966 a Nyamata, perché era tutsi. Nel 1994, trentasette dei suoi membri sono stati massacrati lì».

Il romanzo parla di una grande siccità: è qualcosa di molto attuale.

«In passato, la colpa della siccità veniva attribuita a Dio o agli spiriti maligni. Oggi la responsabilità è del cambiamento climatico, in gran parte causato dall'uomo...»

Siccità e pioggia hanno anche significato metaforico?

«La pioggia e il suo arrivo, auspicato in una data ben precisa, sono ovviamente cruciali per i ruandesi, che vivono al novanta per cento di agricoltura. Il re e gli stregoni della pioggia sono sempre stati ritenuti responsabili dei mali del Paese. La carestia del 1943 però è ben documentata: fu causata dalla siccità, ma anche dallo sforzo bellico richiesto alle popolazioni colonizzate».

Akayézu è un personaggio centrale, che incarna lo spirito cristiano più dei religiosi stessi: come nasce?

«Il nome Akayézu, Piccolo Gesù, sembra determinare il suo destino. È davvero un piccolo Gesù, ma un piccolo Gesù africano, addirittura ruandese. Spesso i convertiti, sia in Africa, come Beatriz Kimpa Vita in Congo, sia in America, come i mormoni, si sono chiesti: perché le Scritture bianche non parlano dell'Africa o dell'America?»

Quanto sono state avvicinate la storia di Kibogo e quella di Gesù?

«Quando i missionari volevano spiegare ai loro catecumeni la salita in cielo di Gesù, di Elia o di Maria, si appellavano all'esempio di Kibogo, che era stato portato in cielo con le mogli, i figli, i servi, i guerrieri e le mucche. Le catechesi dei missionari erano spesso prese alla lettera, e confondevano una storia con l'altra. Di qui è nato un certo sincretismo».

Da dove nasce il tono così ironico del romanzo?

«L'humour è una peculiarità imprescindibile dell'eleganza, e un ruandese deve disporne nel comportamento e nei modi».

La pluralità di voci che cosa rappresenta?

«Il romanzo vorrebbe essere corale. La voce fuori campo appartiene al villaggio che è stato costruito ai piedi del monte Runani, dove Kibogo è salito in cielo e dove si oppongono due luoghi santi: un bosco sacro con alberi intoccabili e la cappella in mattoni della missione».

C'è un personaggio che ama particolarmente?

«Ho provato a rendere Akayézu un personaggio molto simpatico, credo. Come me, ascoltava i racconti di sua madre».

Il richiamo alle radici ha un valore anche oggi?

«All'indomani del genocidio, i ruandesi hanno cercato di riconciliarsi e di ricostruire il Paese attorno a valori fondamentali come l'agaciro, in cui ogni ruandese può identificarsi. Il termine può essere tradotto come dignità. Nel 2019, il Ruanda ha riportato in vita una festa tradizionale chiamata umuganura, la festa del sorgo».

Con quale intento?

«Secondo il governo, al di là delle manipolazioni che la storia del Ruanda ha subito, è necessario affidarsi a pratiche e riti che sono stati alla base della società e della cultura ruandese. Il nuovo Ruanda può affondare le sue radici in un passato ritrovato? È questa la scommessa del mandato di Paul Kagame.

Questo ritorno alle origini non deve essere accompagnato da una recrudescenza nazionalista, deve essere accompagnato da un'apertura agli altri: questo è ciò che il Ruanda sta cercando di fare».

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