«Re Ruggero» regna con la bacchetta di Pappano

Re Ruggero (1926), opera in tre atti di Karol Szymanowski, ha aperto la stagione sinfonica (con regia in presa diretta e proiezioni) dell'Accademia di Santa Cecilia. Mario Bortolotto, critico non dimenticabile, recentemente scomparso, sintetizzava come nel Re Ruggero «ritornino tutti i miti della décadence: Bisanzio secondo Yeats, Penteo e Dioniso, l'oro musivo, la Sicilia del barone Glöden, il gregoriano e la melopea araba, il viaggio in Italia come liberazione erotica.» Il soggetto minimo tratta della «comparsa in un ambiente che tutto fa ritenere perfetto, forse l'ottimo mondo possibile, di un sublime guastafeste, di professione Pastore, ma in realtà messaggero d'occulti veri.» Il Pastore è Dioniso che perturba tutto e tutti come un vento rovente il solo Ruggero resiste, ma per consegnarsi all'abbraccio finale con il Sole d'Oriente. Ad affondare nel fasto sonoro dell'opera ci ha pensato da par suo Antonio Pappano, sollevando folate e marosi sonori con i quali Szymanowski celebrava il suo culto per la Sicilia, Medio Oriente d'Italia. Nelle logge dell'Auditorium falangi di voci bianche e coristi (istruiti con la perizia a cui ci ha abituati Ciro Visco), hanno realizzato la stereofonia «visiva» confusa nelle proiezioni.

Compagnia di canto senza grinze: Lukasz Golinski (Ruggero), fiato e solidità; Edgaras Montividas (Pastore), inquietante presenza vocale; Lauren Fagan (Rossana), sana emissione nei tortuosi melismi arabeggianti. Szymanowski ha ritrovato accoglienza in seno all'Accademia di Santa Cecilia, che lo volle Accademico d'onore nel lontano 1933.

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