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Il regale Lord Bolingbroke. La Storia maestra di politica

Ministro e segretario di Stato nel XVIII secolo, pose le basi della moderna storiografia inglese

Il regale Lord Bolingbroke. La Storia maestra di politica

Il padre riconosciuto del conservatorismo moderno, Edmund Burke, non ebbe mai molta simpatia per Lord Bolingbroke, uno degli esponenti più rappresentativi e influenti del partito dei Tory del XVIII secolo. In un passaggio delle Riflessioni sulla Rivoluzione francese pubblicate nel 1790 si chiese, associandone il nome a quello di tanti altri «liberi pensatori» che avevano avuto notorietà: «Chi legge ancora Bolingbroke? E chi l'ha mai letto per intero? Se volete sapere che cosa è avvenuto di tutti questi luminari del mondo, chiedetene a qualche libraio di Londra». Nello stesso saggio aggiunse che l'opera di Lord Bolingbroke, il quale peccava «in genere di presunzione e di superficialità», aveva lasciato «solo una fuggevole impressione» sul suo pensiero.

La domanda di Burke, piuttosto maliziosa e formulata una quarantina d'anni dopo la morte di Lord Henry Saint-John visconte di Bolingbroke (1678-1751), era alquanto ingiusta. Nell'ultimo scorcio del Settecento, infatti, e nei primi decenni del secolo successivo, la fama di Bolingbroke come filosofo e pensatore politico fu grande anche fuori dei confini nazionali: negli Stati Uniti, per esempio, ancora nel 1813, John Adams sentì il bisogno di replicare alla domanda retorica di Burke scrivendo a Thomas Jefferson: «Io l'ho letto almeno cinque volte durante la mia vita». L'antipatia di Burke per il visconte era di antica data. Nel 1756, infatti, egli aveva già pubblicato un gustoso saggio satirico con cui - imitando stile e idee di Bolingbroke e applicando alla società civile le stesse argomentazioni di questi contro la religione rivelata - denunciava il pericolo di «razionalizzare» le istituzioni sociali e morali con il ricorso a concetti astratti e lontani dalla realtà.

Al di là della critica corrosiva di Burke, che puntava a ridimensionarne l'importanza come pensatore politico e filosofo, Bolingbroke (1678-1751) fu un personaggio di peso nella vita politica e culturale inglese del tempo. Appartenente a una famiglia che vantava parentele illustri con Enrico VII Tudor e con Oliver Cromwell, appena ventenne viaggiò per due anni circa in Francia, Svizzera, Italia, secondo la tradizione per la quale i giovani aspiranti alla politica dovevano impegnarsi in un Gran Tour per perfezionare lo studio delle lingue e conoscere usi e istituzioni di altri Paesi.

Esuberante e libertino, estroverso e socievole, dotato di grande curiosità intellettuale e di capacità speculativa, amava la compagnia dei giovani aristocratici e non disdegnava i piaceri di una vita gaudente e dissipata. Secondo uno dei suoi amici più intimi, Jonathan Swift, egli avrebbe voluto essere l'Alcibiade e il Petronio Arbitro del proprio tempo, vivendo in maniera anticonformista. Un altro suo amico, lo scrittore Oliver Goldsmith, narrò che egli fu visto correre nudo per il parco in uno stato di evidente alterazione dovuta all'assunzione di droghe.

Era un conservatore convinto e dedicò tutta la sua attività politica alla causa dei tories fondando giornali e cercando di aggregare scrittori e pensatori disposti a seguirlo nelle sue battaglie: fu il fondatore, per esempio, e l'animatore dell'esclusivo e aristocratico Brothers Club frequentato da intellettuali come Jonathan Swift, Alexande Pope, John Gay e via dicendo. Non è un caso che proprio in questi ambienti siano state concepite e scritte alcune opere satiriche antigovernative come i famosi Viaggi di Gulliver di Swift.

La vita pubblica e politica di Henry Saint-John, creato visconte di Bolingbroke nel 1712, si svolse tutta in una Inghilterra che - dall'epoca della cosiddetta «gloriosa rivoluzione» del 1688-89 che aveva portato alla caduta di Giacomo II Stuart e alla sua sostituzione con Guglielmo III d'Orange - aveva assunto i connotati di una monarchia parlamentare. Fu ministro della guerra e segretario di Stato e svolse un ruolo chiave nelle trattative diplomatiche culminate nel Trattato di Utrecht (1713) che mise fine alla guerra di successione spagnola. Dopo la schiacciante vittoria elettorale dei whigs e le accuse mosse contro di lui e contro altri tories, fuggì in Francia avvicinandosi al pretendente al trono Giacomo III Stuart e partecipando all'organizzazione di una fallita congiura giacobita in Scozia. In Inghilterra poté rientrare, ottenuto il perdono di Giorgio I, solo nel 1723 e da quel momento portò avanti una dura opposizione al governo di Robert Walpole.

Proprio in Francia Lord Bolingbroke scrisse le sue opere più importanti, in particolare le Lettere sulla storia (Aragno, pagg. LXII-324, euro 25) presentate ora in una nuova e filologicamente ineccepibile traduzione di Daniele Savino, il quale vi ha premesso una bella introduzione che le contestualizza all'interno del dibattito storiografico. Pubblicata postuma a Londra nel 1752, l'opera di Bolingbroke si inserisce nel clima dell'illuminismo inglese che, passando attraverso Hume e Locke, ebbe connotati propri, ben diversi da quelli del più conosciuto illuminismo francese. Le otto «lettere» di Lord Bolingbroke indirizzate al giovane Lord Cornbury, pronipote del grande storico della guerra civile Edward Clarendon, sono uno dei primi tentativi inglesi di teorizzazione della ricerca storiografica.

Le prime cinque lettere riguardano le principali questioni della conoscenza e della ricerca storica, a cominciare dalla attendibilità e ricerca delle fonti fino per giungere al tema della «utilità» della storia. In esse la critica della tradizione «annalistica» ed erudita si combina con il richiamo, più o meno sottinteso, alla tradizione di un Niccolò Machiavelli e di un Francesco Guicciardini nella presunzione che la storia debba servire anche, attraverso gli esempi del passato, per formare capi e uomini politici e gestire situazioni. Insomma, come si legge nella seconda lettera, «la storia è filosofia che istruisce attraverso gli esempi».

Si tratta, come osserva Savino, di una «concezione umanistico-pedagogica» della storia che ha «il merito di relativizzare quell'atteggiamento scetticheggiante» che, pure, percorre le pagine dell'opera.

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