Prima che arrivasse alla Scala il nuovo allestimento del Pipistrello di Johann Strauss figlio ci è stato spiegato trattarsi di un operetta-capolavoro che può stare accanto alle «opere» del repertorio nelle più serie case d'opera. Dunque aspettandoci «rispetto», ci ha colpito la confusione dei dialoghi parlati: un po' in italiano e un po' in tedesco, secondo un criterio noto forse solo agli elaboratori, Cornelius Obonya (regista) e Carolin Pienkos (co-regista). Risultato: italiano gutturale per i tedeschi e tedesco arrotondato per i nostrani. Elaborazione dialogico-registica che deve essere stata una gimcana, dovendo includere riferimenti all'orologio di una nota casa svizzera sostenitrice della serata e anche product placement sotto forma di sacchetti di due note griffe di moda. Aggiungiamo che il tenore Giorgio Berrugi inseriva nella parte di Alfred (siccome maestro di canto della padrona di casa) motivi di opere verdiane e pucciniane, anche col sostegno dell'orchestra, inseriti nella sublime trama musicale straussiana come colpi al basso ventre. Il tutto portato in una località sciistica alpina volutamente neo-cafonale (Rosalinde nello chalet domotico esibisce una statua gigante di Giacometti e altri must postmoderni).
Misteriosa la presenza degli acrobati che calano dall'alto nell'ouverture mentre i ballerini dovrebbero sintetizzare il gioco delle coppie fra flirt e tentate infedeltà coniugali (lo sfondo è un ghiacciaio!) I sorrisi venivano da chi era un pesce fuor d'acqua, lo stralunato Paolo Rossi nella parte del carceriere, nel suo ebbro e tignoso monologo del terzo atto.
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