Cultura e Spettacoli

"Sì, mi piace la bella sconfitta. Salgo sul ring con Hemingway"

Lo scrittore, ed editor potentissimo, dopo 10 anni di silenzio torna con un libro di racconti, fra sfide, guerre e corride...

"Sì, mi piace la bella sconfitta. Salgo sul ring con Hemingway"

Ufficio neominimalista e scrittura postemingueiana. Le due cose si tengono (o no?).

Le due cose sono, la prima: pareti nude, scrivania meno affollata di carte di quanto ci si immaginerebbe per il più potente editor d'Italia, un Mac portatile, un pennarello rosso, due evidenziatori e pochi libri, fra cui l'ultimo su cui ha messo sopra le mani e dentro le correzioni: il nuovo M di Antonio Scurati («Uno scrittore che accetta critiche e suggerimenti con grande eleganza»). E la seconda è una raccolta di nove racconti («Tutti legati da un fil rouge paraemingueiano: storie di pesca, di ring e di corrida, manca solo un racconto africano, ma solo perché nell'Africa nera non sono ancora stato...») dalla scrittura così esatta e essenziale da poter osare un confronto con Ernest Hemingway, scrittore per il quale la vita era una sfida contro se stessi. Titolo: Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani, libro che esce per la casa editrice NN. «Non è elegante pubblicare con l'editore per il quale si lavora...».

Antonio Franchini ha lavorato, e scritto, per molti editori. A lungo per Mondadori, editor della narrativa italiana, e ora da cinque anni, quando nacque il colosso Mondazzoli («Quell'acquisizione alla fine ha fatto bene a tutto il sistema») - per il gruppo Giunti.

Come sta l'editoria italiana?

«Un mondo fragile ma resiliente. È vero, si legge poco, ma in compenso si scrive tanto, sui social e non solo. Il libro, invece, esiste ed esisterà sempre. L'unica differenza è che un romanzo oggi dura meno rispetto al passato, pesa meno, fa più fatica a depositarsi nell'immaginario della nazione».

Napoletano ma da così tanto tempo a Milano che non si sente l'accento, e nell'editoria da così tanti dei suoi 62 anni che pure non gli è passata la voglia di leggere, Franchini esordì nella narrativa nel 1991 quando ancora esisteva la fantastica casa Leonardo. Poi raccolte di racconti, saggi narrativi e romanzi saggistici, fino a dieci anni fa. Pausa. E ora ecco «un tentativo di comporre e ricomporre l'immaginario emingueiano».

Perché?

«Perché appartengo a una generazione che ancora subiva la fascinazione di Hemingway, uno scrittore che dal punto di vista della mitologia della scrittura ne ha rovinati tanti... Lui ha incarnato davvero per quelli come me, e prima di me - lo Scrittore. Poi, visto che l'esperienza fisica fin da ragazzo ha sempre contato molto per me, sento anche un'affinità tematica forte con Hemingway: la wilderness, la passione per la lotta».

I nove racconti di Franchini narrano di una gara di corsa di una ragazzina in una giornata di olimpiadi scolastiche dal punto di vista del padre. Di una Pesca alla trota in Carnia. Di un volo a Cuba e di Un Marlin imbalsamato. Di come a Kobarid - dove da Addio alle armi a oggi non è cambiato quasi niente - si ricordi degli Ultimi due italiani di Caporetto. Di Un aficionado della corrida (che non è solo il massacro di un animale). Di un uomo che discende in canoa il Grande fiume dai due cuori, che sono quelli di due amici, uno scrittore e un arrampicatore, entrambi morti da poco, e alla fine di tutte queste sfide - di come «Una sconfitta applaudita è più bella della vittoria».

Anche Hemingaway la pensava così?

«Forse non in maniera esplicita. Però fu il primo a mettere gli scrittori uno contro l'altro, anche fisicamente: Io contro Dostoevskij non reggerei due round, diceva. E del resto il concetto di beautiful loser è molto americano. È curioso: la società che celebra al massimo grado il successo, poi è capace di riconoscere la bellezza della sconfitta. Ma c'è anche qualcosa di orientale in questo: Il fine dell'azione non è così importante quanto l'intenzione. Questione di stile».

Cos'è lo stile in letteratura?

«La capacità di essere riconosciuti sulla pagina, se non alla prima alla seconda frase. Per come metti le parole, per l'atmosfera che sai creare, per l'aura che diffondi. Poi certo: lo stile può diventare un problema. Hemingway è l'esempio più bello di un autore che resta vittima dello stile Hemingway».

Lo stile è tutto in letteratura?

«No, la letteratura è anche personaggi, creazione di miti, situazioni. Victor Hugo non scriveva bene, ma nei suoi romanzi ci sono ben altre cose oltre la scrittura. L'idea di un'arte della scrittura è tutta novecentesca, e nasce con Flaubert. Per quanto mi riguarda, se c'è una cosa che faccio, ma senza farmene condizionare troppo, è andare a vedere se l'autore ha accoppiato o meno un sostantivo con l'aggettivo troppo scontato, perché anche la storia conta, contano i personaggi, e se hai qualcosa da dire. Però attenzione: da autore, se c'è una cosa che mi appartiene è l'ossessività per la qualità della scrittura».

È migliore l'Hemingway dei romanzi o quello dei racconti?

«Il vecchio e il mare è un romanzo breve o un racconto lungo? Festa mobile è un libro di memorie, ma anche un romanzo bellissimo. E Le nevi del Chilimangiaro e La breve vita felice di Francis Macomber? Forse sono più di semplici racconti...».

Ma è vero - lo chiedo all'editor - che i racconti in Italia non vendono?

«Sì. Il racconto è una misura che piace agli scrittori, perché hanno il controllo totale della pagina - o perlomeno: credono di averlo - e perché possono sperimentare. Ma non piace ai lettori: che preferiscono la grande storia e non vogliono dover ricominciare da capo ogni dieci pagine...».

Il romanzo è più faticoso e rischioso.

«Sì, ma gli si perdona anche di più. Su duecento pagine, al lettore va bene anche se ce ne sono trenta di troppo, o fra dieci personaggi, che due non siano del tutto riusciti. Nel racconto non puoi sbagliare neppure una frase: deve essere perfetto. E lo dico da scrittore e da editor».

Un editor può fare lo scrittore?

«A una condizione. E cioè che la sua scrittura non sia pensata per il mercato, non abbia dichiarate mire commerciali. Questo non significa che poi il libro non possa anche vendere, ovvio: l'editoria è imprevedibile. Ma se io, da editor, ho potuto fare anche lo scrittore, è perché la mia scrittura non è mai stata puramente narrativa, ma mista. Un po' saggio, un po' romanzo. Qualcuno la chiama literary nonfiction...».

È più bello scrivere o fare l'editing?

«È più bello leggere».

Lei ha letto, facendo l'editing, molti scrittori italiani.

«Non esiste la categoria scrittore italiano. Un tempo - penso alla critica giornalistica degli anni '60, '70 e anche '80 - si diceva che mentre lo scrittore americano scopava, beveva, viveva, quello italiano era un letterato, chiuso nella sua stanza, e che aveva anche una moglie brutta... Ma non era vero allora - la nostra letteratura è piena di irregolari e di eccentrici - e tanto meno oggi. È vero, però, che esiste una antropologia dello scrittore contemporaneo: fatta di insicurezze, ansie, ossessioni...».

È vero che scrivono tutti allo stesso modo e le stesse cose?

«Ma va! Questo succedeva più negli anni '50-'60, quando il romanzo era per lo più resistenziale, o subito dopo gli anni di piombo, quando tutti volevano fare il Grande romanzo degli anni Settanta. Oggi non ci sono più filoni così rigidi. Convivono forme e generi diversi. E c'è persino meno conformismo di un tempo».

I critici della vecchia guardia dicono che sono libri tutti uguali, che i contemporanei hanno smesso di scrivere.

«Forse sono loro che hanno smesso di leggerli».

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