"Sangue, dolore e ideali: sì, racconto la guerra ma non quella della tv"

Lo scrittore è nello Strega con "Amici per paura", romanzo su un'infanzia tra bombe e Giarabub

"Sangue, dolore e ideali: sì, racconto la guerra ma non quella della tv"

Pochi personaggi: una famiglia italiana particolare - fascisti così tiepidi da sfumare nella zona grigia - seguita durante le giornate più cupe del 1943 e del '44. Un pugno di comprimari: un prete che scappa in montagna, ammazzato dai partigiani perché vuole avvertire i tedeschi e i suoi parrocchiani di un imminente bombardamento a tappeto; un inquilino comunista e un capo-caseggiato fedelissimo al Duce; un vecchio commerciante di libri usati... Due città: Roma, dove la vicenda inizia e si conclude, e Macerata, dove si svolge la parte centrale del romanzo, al riparo dalle bombe e i rastrellamenti nella Capitale. E giusto qualche «oggetto di scena», accuratamente scelto e originale (si tratta pur sempre dell'infanzia dell'autore): i soldatini di carta da ritagliare, La saga di Giarabub, Dick Fulmine e Flash Gordon, i fornelli sui balconi, il tum-tum di Radio Londra... Ed ecco ricostruito il mondo di Amici per paura (SEM, pagg. 220, euro 15), romanzo di avventura e di formazione - dove l'avventura è la guerra e la formazione è la liberazione dalla fanciullezza - di Ferruccio Parazzoli, storia che decolla in sordina come gli aerei d'argento che passano in formazione sopra Roma «città aperta», e poi esplode come una bomba al fosforo. Incendiario.

Parazzoli, tutto è visto dagli occhi di un ragazzino, che forse è Lei stesso, e che nel romanzo si chiama Francesco, il protagonista...

«No. Il protagonista non è il ragazzino. Il protagonista del romanzo è la Guerra, che infatti scrivo sempre con la maiuscola, un personaggio straordinario, enorme, che come un aratro scava tutto e quando è passato lascia dietro di sé lo stupore... Dove lo trovi un personaggio che sa regalare paura, speranze, ideali, gesti eroici, meschini, sprazzi di umanità e di ferocia come la Guerra?».

Tanti romanzi italiani ancora oggi tornano a raccontare la guerra, quella guerra...

«La guerra è importante. Ma non per ricordare quel periodo storico particolare. Ma per ricordare la Guerra in sé. Perché da generazioni la guerra non si vede più, se non in tv, e dura lo spazio di un telegiornale, il tempo di mangiare un piatto di pasta... Invece quando c'è, la Guerra occupa ogni azione umana, i momenti drammatici e i momenti felici. Anche dividere con i vicini di pianerottolo 300 grammi di pane preso con la tessera annonaria è un atto di guerra... La Guerra avvicina, ti mette accanto un prossimo, non come la Guerra della tv che è virtuale. No, la guerra vera significa gioire e soffrire con qualcuno, significa riscoprire l'altro, ecco perché importante raccontarla».

Raccontare la guerra dal punto di vista di un bambino significa fare i conti con la propria infanzia? Lei nel '44 aveva nove anni, come Francesco, e viveva a Roma...

«Non ho mai sopportato i romanzi o i film con i bambini protagonisti. Quasi sempre è solo un facile espediente narrativo. Se io ho messo in scena Francesco è invece per recuperare la mia infanzia, che è un recupero vitale per me. È vero: ho dato a Francesco una lente per vedere la Guerra, ma attenzione. Non è la lente dell'ingenuità, ma quella del cinismo. I bambini sono capaci di una straordinaria capacità di estraniarsi dal mondo degli adulti. Ad esempio sono convinti, come lo è Francesco, di non potere morire come invece accade ai grandi. Un punto di vista interessante, non trova?».

Nel romanzo ci sono italiani fascistissimi e un po' grotteschi, antifascisti impauriti, partigiani non così buoni, un ufficialetto nazista che salva la vita a un padre di famiglia, c'è anche un accenno alle marocchinate... Difficile distinguere i buoni dai cattivi.

«E non lo voglio fare. Certo: il mio giudizio storico sul nazi-fascismo è di condanna assoluta. Ci sono fatti che non si perdonano. Però poi bisogna arrivare agli individui, alle singole persone, ognuna con le proprie meschinità e i propri eroismi. Il giudizio non può essere mai assoluto, deve sfumare, caso per caso. Forse la letteratura serve anche a questo».

Francesco, il ragazzino del romanzo, prima dice che da grande vuole diventare un fante, poi un prete, quindi decide di fare lo scrittore. E Lei? Ha sempre voluto scrivere?

«Ma no, come si fa?! Non uso la parola vocazione, che lascio per rispetto ai religiosi, diciamo piuttosto l'idea di scrivere mi è venuta presto, ma non subito. Durante l'infanzia hai molti innamoramenti. Sogni di diventare un eroe, coraggioso come un Ardito, sogni di aiutare gli altri, autorevole come un prete... Poi qualcuno ti fa leggere Guerra e pace, la pagina in cui Tolstoj descrive lo sguardo terribile e bestiale dei soldati francesi sulla Beresina, e capisci che forse puoi vivere la vita in un'altra maniera. Cioè scrivendo. Per me è stato così. A un certo punto ho pensato questo, che scrivere forse è il modo più profondo che c'è per vedere la vita».

Tolstoj. Quando il commerciante di libri, che sfanga la guerra rivedendo i volumi che fa raccogliere ai bambini tra le macerie delle case bombardate, dà in mano Guerra e pace a Francesco, gli dice che l'ha scritto un conte: «Mica come gli scrittorelli di oggi, giornalisti falliti».

«Quindi? Vuole sapere se alludevo alla situazione di oggi? Non cambia nulla tra quei tempi di guerra e i nostri, se non che oggi si pubblica ancora di più. Il senso della letteratura è lo stesso: se a spingerti a scrivere quella determinata cosa è un motivo che viene da lontano, da cui non puoi prescindere, e che non puoi fare a meno di assecondare, allora puoi ambire a essere uno scrittore. Se invece vuoi pubblicare il tuo romanzetto perché ti senti intelligente, sei famoso, fai il conduttore tv o perché hai - come si dice? Tanti followers - e ti dici: Lo scrivono tutti, perché non posso scriverlo anch'io?... beh, allora sei uno scrittorello».

Lei ha pubblicato il primo libro con Bompiani, nel senso di Valentino Bompiani, nel '77. Ha scritto decine di romanzi, è stato nella cinquina dello Strega e del Campiello, battuto da uno che si chiamava Primo Levi, e ha diretto gli Oscar Mondadori per dieci anni. Ne ha visti di scrittori e di scrittorelli...

«La differenza la fa la profondità. I secondi improvvisano una storia, i primi la fanno depositare. I veri romanzi sono reperti fossili».

Quali sono i buoni libri?

«Quella cosa lì. Sono i libri non che hanno la pretesa di farti capire la vita, ma che ti aiutano a viverla. Ha presente i volumi dei Meridiani, quelli dei grandi scrittori? Sulla libreria li tengo di piatto, dove c'è la foto, così vedo le loro facce. E li saluto ogni mattina. Sono amici».

E la scrittura, quanto vale?

«Non mi interessano i libri scritti bene. Mi interessano i libri in cui riconosci la voce di un amico, appunto. Dostoevskij scriveva malissimo. E allora?».

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