Cultura e Spettacoli

La Scala rivaluta il fanciullo-prodigio Korngold

Ecco una melodia che fluttua da quasi 100 anni: «Glück, das mir verblieb» (Felicità, che sei restata). La ballerina Marietta la canta all'attonito vedovo Paul che crede di parlare con l'incarnazione della moglie defunta. Diventa «la canzone dell'amore fedele che deve morire», metafora dell'opera Die Tote Stadt (1920), gran successo del compositore ebreo-austriaco Erich Wolfgang Korngold, fanciullo prodigio divenuto l'operista tedesco più eseguito in patria dopo Richard Strauss, morto esule autore di colonne sonore a Hollywood. Quando la si ascolta si rimane senza fiato, sia nel primo quadro (in forma di duetto) che nel finale, diventando l'epigrafe di quell'amore-lutto ossessivo. A suo tempo fece furore cantata dalla voce plastica del super-divo dell'operetta Richard Tauber, in coppia nientemeno che con Lotte Lehman; oggi omaggiata da Jonas Kaufmann (con mezze voci da brividi). Nell'allestimento della Scala si è difeso con professionalità Klaus Florian Vogt, ma il pubblico è rimasto colpito dalla Marietta di Asmik Grigorian, attrice versatile quanto spavaldo soprano, e dal sempre puntuale Markus Werba (Frank/Pierrot), al quale Korngold consegna un'altra perla musicale nel secondo quadro. Allestimento coerente di Graham Vick, pur eliminando il clima della città morta (Bruges), dove è ambientato il soggetto, tratto dal poeta simbolista belga Georges Rodenbach.

Sul podio Alan Gilbert pur non riuscendo a rendere leggero il poderoso organico richiesto da Korngold quando scatena la vena modernista, ha rispettato i momenti lirici accompagnando i solisti con sensibilità.

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