Tra le uscite al cinema del weekend spicca “La scelta di Anne - L’événement” della regista e sceneggiatrice francese Audrey Diwan, in quanto vincitore del Leone d’Oro all’ultimo Festival di Venezia.
Il film, che è basato sul romanzo autobiografico di Annie Ernaux uscito nel 2000, è stato premiato perché «tocca la pancia e il cuore parlando di un tema come l'aborto clandestino che ancora oggi le donne sono costrette a subire in molti paesi». Opera sicuramente degna di nota ma, al di là delle parole ufficiali di circostanza, resta difficile pensare che avrebbe vinto in un momento storico meno attento a mettere in risalto il woman power e tutto quello che gira attorno a una specie di rivoluzione che mal si appropria del termine femminismo.
Francia, 1963. Anne (Anamaria Vartolomei) è una brillante studentessa con un promettente futuro davanti a sé. Quando resta incinta, durante un incontro sessuale occasionale, vede svanire la possibilità di portare a termine i propri studi. Si mette in testa quindi di combattere con tutti i mezzi, all’epoca illegali, una gravidanza che metterebbe fine alla sua vita così come l’ha programmata e sognata da sempre.
“La scelta di Anne” è un racconto lineare e semplice, in cui nulla attutisce l'impatto con una realtà costellata di momenti crudi e che è una lotta contro il tempo scandita da didascalie indicanti la settimana di gestazione. Il film è molto fisico, giocato tutto sul corpo e sul volto di un’attrice all’altezza e di magnetica intensità. Negli occhi di questa giovane franco-rumena, vezzosamente intonati durante ogni scena all’abbigliamento, scorrono umiliazioni, solitudine e dolore. Per il resto, ogni grido è strozzato perché la sua Anne deve agire di nascosto: non ha uno Stato o una società ad assisterla e proteggerla nelle proprie scelte, si sottintende ideologicamente.
A dirla tutta è assai disturbante che durante la visione non ci sia un singolo momento in cui traspaia un dubbio o una discussione dialettica di matrice morale circa la soppressione del feto. C’è posto solo per il racconto di un pragmatismo atto all’eliminazione dell’ostacolo, ovvero alla ricerca di una cura a “quella malattia che prende solo le donne e le rende casalinghe”. Come se una prospettiva diversa da quella cui una persona ambisce in partenza non fosse degna di essere vissuta.
Viene fatto spesso presente che, nella Francia nei primi anni Sessanta, anche solo parlare di aborto può condurre al carcere. Si evince specie da comportamenti e dialoghi che animano il paesaggio umano di contorno alla protagonista. Ci sono medici che le dicono di rassegnarsi e altri che le prescrivono a sua insaputa delle iniezioni che invece di indebolire in feto lo rinvigoriscono. Tra le amiche, ci sono la morigerata che si rivela empatica e la finta disinibita che le volta le spalle. Infini gli uomini, pronti a giudicare e, perché no, a provarci ora che il sesso è diventato sicuro essendo l’interessata già incinta.
Sono evidenti disagio e malessere in Anne ma onestamente lo spettatore, ancorché la regia segua la protagonista ad un palmo di distanza, non ha modo di sentirla sentimentalmente vicina. L’intenzione sarà pure quella di rappresentare un femminile fiero e coraggioso, ma non può esserci investimento emotivo nei confronti di qualcuno che si presenta come una macchina da guerra. Anne sa cosa vuole, ossia liberarsi di un problema costi quel che costi. L’assoluta risolutezza e assenza totale di tentennamenti con cui la vediamo agire rende la visione piuttosto indigeribile sul piano etico. Per non parlare di come il motore primario della via crucis vissuta in solitaria sembri talvolta essere soprattutto il desiderio di riscatto sociale, la ferma volontà di affrancarsi dalle origini umili dei genitori.
Concludendo, tra i pregi di
"La scelta di Anne" non c'è quello di generare empatia: sono freddezza e calcolo a impugnare i famigerati ferri da calza, strumenti che in scena tutto suscitano tranne l'idea di essere vessillo di una rivendicata libertà.
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