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Se Napoleone combatte le battaglie di Giulio Cesare

L'Imperatore in esilio a Sant'Elena studiava il dittatore romano. Nei motivi della sconfitta del suo predecessore cercava uno specchio per capire la sua

Se Napoleone combatte le battaglie di Giulio Cesare

Un grande generale che parla di un altro grande generale. Due uomini che hanno sfidato il destino e, pur vincendo infinite volte, hanno scoperto che il destino è invincibile e, a un certo punto, prende il sopravvento. Perché c'è sempre un tiro di dadi che gira storto. Ma solo il secondo può riflettere sulla sconfitta finale di tutti e due. Due potenti della terra vissuti a secoli di distanza ma a tratti simili, anche perché il secondo ha voluto emulare il primo e spera, mentre è rinchiuso in un oceanico esilio, di riuscire a lasciare la stessa traccia nella Storia.

Questa a grandissime linee - davvero è un testo pieno di infinite suggestioni - è il succo de Le guerre di Cesare scritte da Napoleone Bonaparte (1769 - 1821) durante il suo esilio a Sant'Elena e ora ripubblicate dall'editore Salerno (pagg.192, euro 15, con introduzione e postfazione di Luciano Canfora).

A pubblicare per la prima volta il testo, nel 1835, fu Louis-Joseph Narcise Marchand, il valletto dell'Imperatore che lo seguì in esilio e lo assistette sino alla morte e a cui il testo era stato dettato da un Napoleone sempre più in cattivo stato di salute. Perché un Bonaparte ormai alla fine si concentrava tanto sul condottiero romano? La risposta esauriente che fornisce l'antichista Canfora nell'introduzione è questa: «Dopo la sconfitta definitiva... Napoleone ripensa alla vicenda cesariana per ripensare se stesso e la propria traiettoria». Bonaparte, privo di un Plutarco, si costruisce da solo la sua vita parallela. Proprio per questo fa partire, dopo uno sbrigativo cappello sulla giovinezza di Cesare, le vicende del condottiero romano dalle campagne in Gallia.

La Gallia è stata per Cesare quella che per Napoleone è stata l'Italia. Il prima è imparagonabile, Cesare era l'illustre rampollo di una antica familia, sebbene non in floridissime condizioni economiche, Napoleone un provinciale con poco di illustre nei natali. Ma una volta gettato il dado della campagna militare... Ecco i percorsi diventano simili. La lotta continua per emergere, una lotta che avviene sui campi di battaglia ma anche a livello politico.

Napoleone sa che quel processo politico che è stato chiamato cesarismo sarà chiamato dopo di lui bonapartismo? Lo intuisce, e intuisce come le rivoluzioni che abbattono le élite generino altre élite alternative. In questo lui e Cesare, capaci di innovare ma anche di restaurare, raggiungono il punto di massima vicinanza: «Nei popoli e nelle rivoluzioni l'aristocrazia esiste sempre: eliminatela nella nobiltà, ed eccola rispuntare nelle casate ricche e potenti del Terzo Stato; eliminatela anche qui, ed essa sussiste nell'aristocrazia operaia e nel popolo».

La potente intuizione sull'aristocrazia operaia di Napoleone è anticipatrice di quella ferrea legge delle oligarchie su cui rifletteranno anche autori marxisti come Gramsci. E coglie uno degli aspetti più importanti che Cesare dovette gestire. L'equilibrio tra vecchio e nuovo, tra gli ottimati ostili e i populares incontrollabili.

L'equilibrio per il romano fu impossibile. Bonaparte lo ottenne e in questo, forse, si sentiva superiore al maestro. Un compiuto rivoluzionario conservatore: «Un principe non ci guadagna niente in questo dislocarsi altrove dell'aristocrazia. Al contrario egli rimette tutto a posto se lascia sopravvivere l'aristocrazia nel suo stato naturale, ricostruendo le vecchie casate sotto nuovi principii». Non bastò a Napoleone per salvarsi dalla stretta mortale contro il suo impero, portata avanti da una Europa delle monarchie, che non voleva tollerare la Rivoluzione e, nemmeno, l'uomo nuovo che ne era diventato l'alfiere sotto diverse spoglie (spoglie cesariane appunto).

Ciò nonostante il modello di modernità da lui imposto avrebbe proseguito il suo corso, rivelando ogni restaurazione come inutile. E quindi l'inevitabile giudizio/speranza: «Nella sua testa Bruto assimilò Cesare a quegli oscuri tiranni delle città del Peloponneso, che godevano del favore di alcuni intriganti... Non volle vedere che l'autorità di Cesare era legittima: legittima perché necessaria e protettrice... perché era il risultato dell'orientamento e della volontà del popolo».

E così Bonaparte, congedandosi dal mondo e guardandolo sub specie eternitatis, poteva davvero sentirsi vicino al suo antico maestro che mai volle sedersi al posto sbagliato, «sostituire la sedia curule dei vincitori del mondo con il volgare e spregevole trono dei vinti».

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