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Sehic, il poeta armato. Dal kalashnikov al verso andata (senza) ritorno

A 22 anni entra nell'esercito bosniaco. Poi inizia a scrivere. Ma la guerra è ancora dentro di lui

Sehic, il poeta armato. Dal kalashnikov al verso andata (senza) ritorno

Il poeta, infine, volta la cetra in kalashnikov. Tra un endecasillabo e una sparatoria non c'è più distanza, ora. L'epopea è lo sbrego sinuoso di un proiettile, «la mia biografia è sangue e carne, non entertainment. Io sono da qualche parte nel mezzo. Io sono uno, ma siamo migliaia. Indistruttibili e spezzati».

Faruk Sehic era iscritto a veterinaria, studiava a Zagabria. Nel 1992 ha 22 anni. Guerra in Bosnia. Si arruola nell'esercito della Bosnia Erzegovina. Spara. Uccide? Chi lo sa. «Probabilmente ho ucciso qualcuno. Non lo so. In guerra non c'è tempo di pensare. Non sai cosa succede. Agisci come comanda l'istinto. La guerra non è un balletto», mi dice, ora, dallo schermo del suo computer, a Sarajevo. Dalla devastazione, sorge un poeta. Faruk, che ora fa il free lance nella città martirizzata dalle bombe, pubblica raccolte di liriche. Poi, volta la cetra in mitragliatore. Nel 2011 scrive Knjiga o Uni, che vince il Premio dell'Unione Europea per la Letteratura. Il libro viene tradotto in Inghilterra, e ora in Italia col titolo (che suonerebbe «Il libro di Una», che è il fiume che rappresenta il cuore indelebile, delicato e mistico del romanzo) Il mio fiume (Mimesis, pagg. 208, euro 16), che rimanda ai fiumi di Giuseppe Ungaretti, il nostro poeta-soldato («Mi riconosco nel vostro poeta, un guerriero come me: mi ha aiutato a trovare una via letteraria», mi dice Faruk).

Il libro di fatto, un allucinato poema in prosa è di aurea ferocia. Scartavetrate il tono ruvido del reportage, la geremiade ostinata e patetica del «testimone». Nella fiction, a parlare è Mustafa Husar, bosniaco e musulmano («Appartengo a un popolo a cui negli anni Novanta del Ventesimo secolo è stata riservata la stessa sorte che è toccata agli ebrei durante il Terzo Reich»), che ci racconta la guerra dalla vulva del delirio, attraverso una trincea di frasi memorabili, da tatuare sul cemento: «Quando sparo mi sento come un Anticristo. Emano soltanto ciò che è contrario alla misericordia»; «Ho trasformato corpi vivi in ombre, anzi in ombre di farfalle notturne, cioè nulla. Io sono un poeta e un combattente e nell'anima un monaco sufi»; «Ho ucciso solo perché volevo sopravvivere al Caos». A questa atmosfera «drogata», insopportabile, si alterna la malinconia a brandelli dell'infanzia sulle rive del fiume Una, che intaglia il confine tra Bosnia e Croazia («Il fiume ha i suoi dei. Il dio del destino, della forza, della rapidità e del colore. Quello a me più caro è il dio del colore, inafferrabile dall'occhio umano che lo venera e gli si inchina a ogni battito di ciglia»). Il resto, è il balzo nel niente, nell'astruso e nel bestiale, consapevoli che forse «la memoria è solo delusione, un sistema di tradimenti perfetti elaborati dal nostro plesso nervoso», certi «che tutto si ripete: la storia si ripete, le nazioni-mattatoio si ripetono».

Il libro di questo Thomas Edward Lawrence punk, senza soluzioni né assoluzioni, shakera, con stuolo d'immagini liriche vibranti (esempio: «I petali erano perfettamente spaziati. Come gli incisivi di Omar Sharif. Perciò i fiori sembravano eliche venute dal cielo»), Nietzsche a William T. Vollmann, ha una energia ferina, «I miei modelli letterari? Più di tutti Jorge Luis Borges. Poi, David Bowie e Lou Reed», mi dice Faruk.

Esteta del nichilismo («Tutta la civiltà è una conseguenza della stupidità»), Faruk sputtana la candida truffa degli intellettuali di professione («Gli analisti difficilmente comprendono la lotta per la sopravvivenza, perché amano occuparsi di metafore illeggibili e interpretare il destino attraverso i processi globali, eventi di cruciale importanza ma fasulli che mai potranno spiegare la sostanza delle cose: i massacri, la crudeltà, lo stridore dei cingoli del T-55 che anche se lontano due chilometri in linea d'aria vi raggela il sangue»), e ci fa sentire l'odore della grande letteratura slava, l'epopea livida di Milos Crnjanski, le sciabolate di Miodrag Pavlovic, il grande poeta per cui «il patimento è l'ultima cornice del volto umano, e questo è anche il destino dei popoli leali: attraverso il grande urlo entrano nell'eternità». Per Faruk, tuttavia, l'eternità postbellica ha ancore odore «di piscio, di feci, di lucido da scarpe». Ostile al comunismo che toglie la libertà come al capitalismo che sega le palle (così l'ater ego di Sehic, «Avviliti, camminerete per i centri commerciali con le spalle curve e i culi unti, bramando i corpi delle sirene affissi sui cartelloni olografici. Vogliono indurvi all'oblio. Vi devitalizzano»), quando gli chiedo se con la condanna di Ratko Mladic sia stata messa una pezza sull'orrore jugoslavo, Faruk fa niet. «Non dica cretinate. L'agonia non è finita, continuiamo a decomporci, la Jugoslavia continua a decomporsi, a distruggersi».

La letteratura nasce per dettare il dolore, per dire l'orrore. Il poeta è un combattente.

Eschilo, sulla lapide, volle essere ricordato come l'uomo che ha combattuto con onore a Maratone, mica come l'autore dell'Orestea. Tra cetra e mitraglia non c'è differenza. Troppa pace, troppa dedizione al leccaculaggio ha azzoppato il talento dei nostri scrittori.

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