La penna di Robert Harris incontra di nuovo Adolf Hitler. Questa volta però lo scrittore di Nottingham non immagina un passato distopico preludio di un futuro soggiogato dal nazismo come in Fatherland. In Monaco (già in libreria edito da Mondadori) Harris ricostruisce, con piglio quasi documentaristico, i quattro frenetici giorni del settembre del '38 durante i quali si svolse la Conferenza che vide protagonisti il primo ministro inglese Neville Chamberlain, il Führer, Benito Mussolini e il premier francese Édouard Daladier. Lo sguardo che accompagna il lettore non è quello dei grandi protagonisti. Harris racconta la Storia con gli occhi di due persone ordinarie che si scontrano con eventi straordinari: il tedesco Paul von Hartmann e l'inglese Hugh Legat. Due vecchi amici che si ritrovano su fronti opposti con una guerra che incombe. Sono i loro personaggi che offrono ad Harris l'opportunità di inserire nella cronaca della Conferenza gli elementi narrativi che permettono allo scrittore di sconfinare dalla cronaca al romanzo condito da una spy story che però resta sullo sfondo.
Harris, perché ancora Hitler e la Conferenza di Monaco?
«Ritengo che quasi tutto quello che è stato detto e scritto sulla Conferenza di Monaco sia errato. Non fu una vittoria per Hitler e non fu una sconfitta per Chamberlain. Mi sono documentato come faccio sempre ed ho avuto informazioni di prima mano a esempio da Lord Douglas-Home, unico testimone di quell'incontro, oltre l'interprete. Circa 30 anni fa avevo realizzato un documentario su quella vicenda e ora ho ritenuto fosse tempo di riportare quella storia alla luce».
La narrazione condivisa non è generosa con Chamberlain dipinto come pavido e irresoluto nel confronto perdente con una coraggioso Winston Churchill.
«Chamberlain non era un debole ma un politico molto abile. Troppo sicuro di sé certamente ma il risultato ottenuto a Monaco ha dato all'Inghilterra il tempo di prepararsi alla guerra, potenziando la flotta aerea. Senza Chamberlain non ci sarebbe stato Churchill. C'è bisogno di entrambi. In qualsiasi fase storica occorre un Churchill ma anche un Chamberlain. Un politico repubblicano, Mike Huckabee, di recente ha paragonato Donald Trump a Churchill e Obama a Chamberlain. Ovviamente per lui il secondo paragone era un insulto ma io penso invece sia un complimento. Chamberlain ha dato un anno di pace in più all'Europa. Un anno prezioso».
Che cosa sarebbe accaduto se la guerra fosse scoppiata allora, nel '38?
«Avevo avuto la tentazione di scrivere un romanzo sulla base di questa ipotesi, ripetendo l'esperienza di Fatherland. Ma sarebbe stato necessario fare troppe congetture. È facile immaginare che cosa sarebbe successo perché il piano di attacco di Hitler era già pronto. Il Führer ha più volte ribadito, nel '42 e poi nel '45, che il momento giusto per iniziare il conflitto sarebbe stato proprio il settembre del '38. Ritengo che le cose sarebbero andate molto peggio»
Perché?
«Il piano di Hitler era pronto. Avrebbe invaso e distrutto la Cecoslovacchia in una settimana. Poi avrebbe attaccato la Francia. L'Inghilterra non avrebbe avuto il tempo di armarsi e probabilmente la Polonia sarebbe stata al fianco di Hitler. La mossa più preziosa di Chamberlain fu quella di far firmare un accordo per una pace duratura a Hitler su quel famoso pezzo di carta che sventolò davanti alla folla al suo ritorno da Monaco».
Un accordo che Hitler non rispettò.
«Esatto. E in questo modo Chamberlain mostrò a tutto il mondo che di quell'uomo non ci si poteva fidare. Se la guerra fosse scoppiata nel '38 non avremmo avuto l'appoggio degli Usa, del Canada, dell'Australia».
Allora qual è la lezione di Monaco?
«Occorre sempre fare tutto quello che è in nostro potere per evitare la guerra ma mantenendo la consapevolezza che si può arrivare a un punto in cui il conflitto diventa inevitabile. I personaggi di Monaco ne sono consapevoli, avvertono che il loro destino è ineluttabile. Se Chamberlain ha commesso un errore è stato quello di ritenere che per qualunque persona razionale sia sempre meglio evitare la guerra senza tener conto, però, del fatto che Hitler non era un uomo razionale».
Come si è avvicinato alla figura del Führer?
«Trovare la strada per descrivere Hitler è stato davvero difficile. Io visito sempre i luoghi che poi devo descrivere nei miei romanzi. Sono stato nello studio di Chamberlain al numero 10 di Downing street. Ovviamente quando non era presente Theresa May. Sono riuscito, grazie al mio passato di giornalista, anche a visitare l'appartamento privato di Hitler a Monaco. Ho visto lo stesso paesaggio che vedevano gli occhi del Führer. A Monaco davanti al Führerbau in Königsplatz la presenza di Hitler si fa tangibile più che a Berlino. Davvero qui senti pulsare il cuore oscuro del nazismo. Sono stato lì in settembre con lo stesso caldo mentre era in corso l'Oktoberfest: i canti, i balli, gli odori. Sono piccoli dettagli però utilissimi. Io sono d'accordo con Henry James quando dice che uno scrittore deve mostrare non raccontare».
Monaco racconta un'era di tiranni. Chi sono i dittatori di oggi?
«L'occupazione della Crimea da parte della Russia mi ricorda l'attività della Germania negli anni '30. Ma si può pensare di seriamente di scatenare una guerra mondiale per questo? Alle provocazioni della Russia occorre rispondere bilanciando ritorsione e dialogo. Ritengo anche quanto accaduto a Salisbury, a due passi da casa mia, sia una gravissima provocazione».
È preoccupato per la Brexit?
«Sono dispiaciuto: sono tra i 16 milioni di inglesi che hanno votato per restare in Europa. Purtroppo i favorevoli all'uscita erano 17 milioni».
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