L'Autobiografia di Alice B. Toklas, che ora torna con una nuova traduzione a settant'anni di distanza dalla prima edizione Einaudi di Cesare Pavese (Marsilio, a cura di Alessandra Sarchi, pagg. 304, euro 21), è il memoir che diede a Gertrude Stein, ovvero alla sua autrice, quel successo di pubblico che aveva sempre cercato e mai trovato. Uscito nel 1933, era da un lato la rievocazione della Parigi intellettuale e artistica del primo Novecento e poi degli anni fra le due guerre, e dall'altro la celebrazione, a volte infantile, a volte scopertamente ironica, del genio di chi l'aveva scritto. La Stein aveva allora sessant'anni e nel suo appartamento di rue de Fleurus, a due passi dai giardini del Luxembourg, aveva sfilato il meglio del modernismo europeo e americano dell'epoca: pittori come Picasso, Matisse, Braque, scrittori come Apollinaire, Cocteau, Anderson. Rispetto ai primi, la Stein non sapeva tenere un pennello in mano, rispetto ai secondi, nessuno degli innumerevoli e spesso voluminosi libri da lei scritti, di ogni genere e tipo, è in grado di reggere il confronto. Eppure, fu per gli uni e per gli altri un punto di riferimento e di confronto: ne ascoltavano il parere, ne ricercavano quanto ne temevano il giudizio. È difficile pensare che fosse tutto un equivoco, non si può però negare che sia rimasto un enigma.
Un primo tentativo per cercare di risolverlo può partire proprio dall'Autobiografia, sia per cosa racconta, sia per come è scritta. Ridotta all'osso, è una storia di frequentazioni gravitanti intorno a chi per ricchezza e uso di mondo era in grado di assicurare mecenatismo culturale e pasti caldi. La Stein, anzi inizialmente gli Stein, Leo, Michael e, appunto Gertrude, compravano quadri, conoscevano mercanti d'arte, organizzavano visite nell'appartamento di famiglia, dove vedere e discutere nuove acquisizioni, in una parola erano per l'avanguardia pittorica del tempo, povera, affamata e pressoché sconosciuta, un porto sicuro dove trovare rifugio. Come scrive Alessandra Sarchi nella sua introduzione: «In rue de Fleurus si conobbero e acquisirono consapevolezza di qualcosa che stava accadendo. Il salotto degli Stein ebbe la funzione di uno specchio: gli artisti potevano vedersi». Qualcosa di simile accadeva anche sul versante letterario, nel senso che il salotto Stein funzionava come una sorta di macchina produttiva tesa alla celebrazione di chi ne faceva parte: editori, riviste, contatti, contratti, marketing si incrociavano per dar vita ad alleanze, supportare questo o quel talento emergente, santificare, nel caso della Stein, il talento, se non addirittura il genio, riconosciuto come tale. Qui il gioco era più sottile e insieme più complicato, perché se Stein e Picasso giocavano in campionati e in sport diversi, e quindi fra loro non c'era rivalità artistica, con Hemingway, o Pound, o Fitzgerald, il confronto e la competizione erano nello stesso campo. Non è un caso che, per restare a Pound, ma allungandosi anche a Joyce, a T.S. Eliot, nessuno di questi accettasse di farsi dire dalla Stein in che cosa consistesse la scrittura. E non è un caso che Hemingway, che conobbe la Stein quando aveva 23 anni ed era un giornalista con velleità di romanziere, ne traccerà più tardi un ritratto amicale e insieme perfido, in linea del resto con la perfidia della controparte. «Hemingway ha l'aria moderna e un sentore di museo. È un allievo che riesce senza capire».
Ma come è scritta l'Autobiografia di Alice B. Toklas? Com'è che la spesso illeggibile, monotona, incapace di costruzione, debole nei dialoghi, povera nell'invenzione, prosa della Stein riesca qui a farsi divertente e, nei momenti migliori, coinvolgente, con punte di introspezione psicologica non indifferente? Qui un aiuto ci può venire non dalla Stein, ma da quella Alice B. Toklas di cui la stessa Stein fingeva di narrare la vita: «Mi sembra che non scriverai mai quell'autobiografia. Sappi che sto per farlo io. Sto per scriverla al posto tuo. Scriverò con la stessa semplicità con cui Defoe scrisse l'autobiografia di Robinson Crusoe. E l'ha fatto. Eccola qui».
Alice B. Toklas era la compagna e l'amante di Gertrude Stein. Era magra quanto l'altra era grassa, aveva dei lineamenti stregoneschi quanto l'altra sembrava un imperatore romano, era silenziosa quanto l'altra era loquace, in salotto sedeva sempre fra le mogli e/o le amanti dei pittori e degli scrittori mentre l'altra pontificava nel gruppo dei mariti e/o degli amanti. Eccezion fatta per la guida dell'automobile, Alice era l'uomo tuttofare di casa e Gertrude, nonostante le dimensioni, la sua bambola-bambina. C'era fra loro del sadomasochismo: in pubblico splendeva Gertrude, nell'intimità regnava Alice e gliela faceva pagare...
Ora, vent'anni dopo l'Autobiografia e quando la Stein era già morta da un decennio, Alice scrisse un libro che si chiamava Alice B. Toklas Cook Book. Non è naturalmente solo un libro di ricette, oltretutto di una cuoca americana in salsa francese, come dimostrato per esempio dal suo Gigot de la Clinique, il cosciotto d'agnello marinato in erba e vino per una settimana e siringato per due volte con succo d'arancia... È, in quanto elegante reperto di modernismo letterario, il pendant perfetto dell'Autobiografia, di cui conserva il tono, lo stile, la svagatezza. È difficile capire se nello scriverlo Alice facesse il verso a Gertrude o se precedentemente fosse stata Gertrude a fare il verso ad Alice e sorge insomma il sospetto che il libro più godibile della Stein fosse in realtà farina del sacco della Toklas...
Una quindicina d'anni fa, Janet Malcolm scrisse un delizioso libretto, Two Lives (Yale University Press) in cui questa doppia esistenza veniva investigata sino alla morte di ambedue le protagoniste, il genio e l'ape operaia. Ne venivano fuori particolari trascurati o poco noti. Per esempio che la campionessa del modernismo letterario era stata un fior di reazionaria nella vita: repubblicana, nemica di Roosevelt e del New Deal, sostenitrice di Franco nella Guerra di Spagna, con amicizie fra i membri del movimento parafascista Croix de Feu... Per esempio che, ambedue ebree, avevano continuato a vivere tranquillamente nella Francia occupata dai tedeschi grazie alla protezione di Bernard Fay, vecchio quanto fedele amico, ma soprattutto componente del governo di Vichy: la Stein pensò addirittura di tradurre in inglese i discorsi del maresciallo Pétain... Dopo la guerra Fay sarà incarcerato per collaborazionismo e nel '51 riuscirà a evadere dalla prigione-ospedale dove era ricoverato, evasione, sembra, finanziata dalla Toklas con la vendita di un paio di Picasso...
Torniamo all'Autobiografia. La nuova traduzione di Alessandra Sarchi non fa rimpiangere quella classica di Pavese, la veste grafica è gradevole, anche se i figurini di Paul Poiret in copertina stridono con la riconosciuta bruttezza della coppia Stein-Toklas. È anche vero però che Alice ricevette in dono dalla prima moglie di Picasso una guarnizione in vetro soffiato di Poiret che appuntò «per anni e anni su un cappellino di paglia a punte».
Dispiace tuttavia che non si sia provveduto a un indice dei nomi, indispensabile in libri del genere, e resta il rammarico dell'assenza dei quadri e dei ritratti cubisti che arricchivano l'edizione einaudiana e bastavano da soli a raccontare che cosa fosse quella Parigi e l'ambiente che la rendeva unica. La Stein cubista dipinta da Picasso fa capire con che mostro, nel senso etimologico del termine, si avesse a che fare.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.