"Siamo andati fin sulla Luna ma è difficile trovare l'America"

La scrittrice californiana racconta il suo Paese senza fare sconti a nessuno: «Noi siamo liberi, ma senza protezione»

"Siamo andati fin sulla Luna ma è difficile trovare l'America"

Figlia di due reporter, cresciuta fra le ideologie (per sua stessa ammissione), bionda, alta, magra e bellissima, Kathleen Alcott viene dalla California, dove è nata trentuno anni fa. Il suo sguardo non ricorda il sole che brilla nel Golden State ma, piuttosto, il ghiaccio dell'Alaska. I suoi non sono romanzi «al femminile»: sono duri quasi quanto lei, come È difficile trovare l'America (Solferino, pagg. 446, euro 19), storia di Wright, figlio della ribelle di buona famiglia Fay Fern e di Vincent Kahn, il primo uomo a mettere piede sulla Luna, nel luglio del 1969. Wright non sa che quell'astronauta è suo padre: Fay è stata per breve tempo l'amante di Vincent, poi ciascuno è andato verso il suo destino, la Luna per l'uno, le proteste contro la guerra in Vietnam per l'altra. Oltre a scrivere, Kathleen Alcott insegna alla Columbia di New York e al Bennington College, nel Vermont.

Qual è l'America di cui parla nel titolo?

«È una citazione dalla raccolta di Daniel Berrigan del 1972. Parlava dei mondi separati in cui ciascuno di noi vive e non credo che molto sia cambiato, da allora».

Wright è figlio di due visioni opposte dell'America?

«Credo che Vincent, il padre, sia figlio della meritocrazia: viene da una classe umile, ha lavorato duro per raggiungere una posizione di eccellenza. Invece Fay, la madre, è un esempio di quella che viene definita discesa sociale, anche se io non la chiamerei così: capisce che la meritocrazia è una bugia e che solo alcuni possono davvero avere delle opportunità, nel Paese».

È una questione di potere?

«Il potere è rimasto troppo a lungi nelle stesse mani. Fay decide di impegnarsi per smantellare questo potere. Non pensavo di scrivere su di loro, però poi li ho fatti incontrare...»

Sono entrambi un fallimento?

«Pensavo: di chi si prende cura il mio Paese? Essenzialmente, di nessuno. Una volta terminata la carriera, per qualche astronauta si sono aperte le porte del governo o dei consigli di amministrazione, ma la maggior parte di loro si è sentita abbandonata. I nostri eroi sono trattati allo stesso modo degli eretici e dei terroristi. Per l'americano medio, le possibilità di realizzazione sono le stesse».

C'è molta solitudine nel romanzo, pensa che sia la condizione del suo Paese?

«Sì. È una caratteristica dell'America. Non stiamo vicini alle nostre case, alle nostre famiglie. Siamo una invenzione di noi stessi, siamo il nostro stesso marchio. La solitudine americana è collegata a quanto ci spostiamo e a quello che il governo non ci dà, ovvero la cura della nostra salute e l'uguaglianza nell'accesso all'istruzione. È un genere di solitudine che ci sta distruggendo».

Che cos'è l'«illusione della scelta» di cui fa esperienza la protagonista Fay?

«Cantava Janis Joplin: Freedom's just another word for nothing left to lose... Il lato selvaggio può diventare predominante nella tua esistenza, è successo anche a me. Il codice etico personale di Fay, basato sull'onore, è molto rigido; e il prezzo per rispettare questo codice è la perdita di qualsiasi futuro, il che, negli Stati uniti, significa vivere al di fuori di comodità e sicurezza. Da lavoratrice non dipendente, ho pagato un prezzo: non poter andare dal dottore, vivere disconnessa».

C'è libertà o no?

«Gli americani sono liberi in termini di scelta, ma non hanno diritto ad alcuna protezione. Credo che questo non accada in altri Paesi».

Fay, in tutta la sua ribellione, alla fine è convenzionale?

«C'è un hard power, visibile, misurabile, come quello dei soldi e delle istituzioni. E c'è un soft power, quello di Fay, che ha il potere dell'intelligenza, della sua sessualità, dell'essere più in gamba dei maschi. In pratica prende in prestito il potere».

Perché un astronauta?

«Mi sono interessata al programma spaziale americano, un picco straordinario in un secolo di progresso, per le proteste che ci furono. Avevo letto una storia del programma Apollo in cui si spiegava come gli astronauti fossero stati accusati di manipolare i cittadini americani per distrarli dalle uccisioni in Vietnam. Così mi sono concentrata sul personaggio di un astronauta, come specchio per raccontare che cosa sia stato quel programma, quella ricerca, in cui abbiamo investito così tanti soldi, proprio mentre gli Stati Uniti stavano commettendo cose tragiche in Vietnam, un Paese di cui stavamo distruggendo l'economia».

L'amore, nel suo romanzo, è un amore cinico?

«Non credo che la mia sia una storia d'amore. In termini politici, l'amore è una stravaganza, impossibile da permettersi. L'intimità è qualcosa che la mia generazione sta perseguendo sempre meno, sotto l'amministrazione Trump: i sacrifici e la vulnerabilità che condividiamo ci rendono impossibile cercare l'intimità».

Sta dicendo che i giovani non si innamorano perché c'è Trump? Tutti si sono sempre innamorati, in qualunque condizione...

«Quello che dico è che i giovani, quelli che vedo io, per esempio i miei studenti, non sono interessati alla coppia, non cercano l'intimità. Ci sono così tante voci per loro, su internet, a cui sono interessati; ma, statisticamente, i giovani oggi non scopano. Gli studenti parlano della loro vita, vivono momenti di espressione di sé, più che di intimità condivisa. Non sono egoisti, bensì politici».

A che cosa si interessano?

«Alle idee.

Alla fluidità del genere. All'arte. Grazie a internet oggi sai molto di più, ma ti sposti molto meno. Quella dei ventenni è una generazione curiosa, in grado di essere autodidatta in molti campi, a un livello strabiliante».

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