Vari pensatori e politici si sono cimentati in Italia su una possibile «terza via» tra capitalismo e socialismo. Tra loro spicca Francesco Saverio Nitti, a cui ora Michele Cento dedica il saggio Tra capitalismo e amministrazione. Il liberalismo atlantico di Nitti (il Mulino, pagg. 220, euro 25). Cento sottolinea la consapevolezza maturata da Nitti tra fine '800 e inizio '900 circa la necessità che il liberalismo si apra alle istanze democratiche e sociali a seguito dell'inevitabile processo di democratizzazione a cui la società è sottoposta per l'avanzare del protagonismo popolare, il cui effetto è il potenziamento dello Stato. Secondo Cento dalla riflessione e dall'attività dello statista lucano più volte ministro e nel 1919-20 anche presidente del Consiglio, emergerebbe il significato storico dei limiti individualistici e antidemocratici della classe dirigente italiana a fronte delle istanze di emancipazione economica e sociale avanzate dalle masse popolari; limiti dovuti soprattutto all'idea liberale della separazione fra società civile e società politica. Nitti avverte la necessità di superare lo Stato di diritto che si limita a regolare i rapporti giuridici fra lo Stato stesso e l'individuo per aprirsi a un liberalismo sociale che si propone di conciliare le ragioni dei singoli e quelle della collettività.
Diversamente dai puri teorici del marginalismo, dell'economia matematica e dell'economia neo-classica, l'impegno liberale di Nitti si svolse su un piano più politico e militante. A fronte dello statalismo paternalistico, sostenitore di un riformismo calato dall'alto, egli propugnava che le riforme dirette al miglioramento della società fossero attivate dal basso, coinvolgendo per quanto possibile la parte più avanzata delle classi subalterne. L'intento era avviare una prospettiva d'azione in grado di interpretare i mutamenti sociali al fine di indirizzarli nell'alveo dell'incipiente modernità industriale. Di qui il suo liberalismo atlantico che mutuava le direttrici politiche e sociali operanti nelle democrazie occidentali per adattarle all'Italia. Esse consistevano in una serie di misure economico-politiche dirette a coniugare lo sviluppo produttivo, la democrazia economica e le riforme sociali attraverso una cooperazione ordinata e cosciente fra tutte le forze attive del Paese. Tali idee riformatrici, tuttavia, non furono in grado di rispondere ai mutamenti storici causati dalla Grande Guerra.
Questi ultimi evidenziarono la necessità di dar vita a un'organizzazione industriale in cui l'economia venisse autoritariamente controllata dallo Stato. Un'istanza che trovò nel corporativismo fascista la sua soluzione effettiva. Così la «terza via» si risolse nella negazione dei suoi intenti originari.
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