"È solo nella perdita che troviamo lo sguardo per cambiare la vita"

Separazioni, eutanasia, famiglie e bugie: lo scrittore parla del romanzo «Il colibrì»

"È solo nella perdita che troviamo lo sguardo per cambiare la vita"

Alessandro Gnocchi

nostro inviato a Roma

Sandro Veronesi è sotto la sede romana del Corriere della Sera. Ci presentiamo e facciamo rotta verso un bar qualsiasi. Mentre camminiamo, mi parla delle chiese della zona. Veronesi, nato a Firenze nel 1959, autore di romanzi di successo come Caos calmo (Bompiani, 2006) è anche architetto e si vede nel nuovo Il colibrì (La nave di Teseo, pagg. 366, euro 20), una costruzione complessa ma riuscita, che avanza e indietreggia nel tempo per suggerire un possibile futuro. Veronesi è anche uno scrittore politico ma il romanzo è toccante per altri motivi, che con la politica c'entrano solo alla lontana. Il colibrì infatti è un romanzo sulla separazione e sulla perdita: la separazione degli amanti, delle coppie, degli sposi, dei padri dai figli e infine la separazione irrimediabile, la morte. Racconta una famiglia e tocca corde universali. Ti lascia la voglia di amare, imparare, leggere.

Veronesi, perché tanto insistere sulla separazione e sulla perdita?

«È la principale causa di dolore nella vita di un uomo. La morte, certo. Ma anche la separazione dei coniugi e la sofferenza dei figli. È un problema della nostra società».

La parte più scioccante è la morte dei genitori, entrambi uccisi da un tumore. Sono pagine che pongono di fronte a decisioni atroci oltre che legalmente problematiche...

«Quando toccò a me, mi accorsi di come la fine della vita oggi sia aleatoria. Mi riferisco proprio alla prassi in uso negli ospedali, che non è detto coincida con la legge. Può coincidere oppure no. Comunque ci si muove, si sbaglia. Quando se ne parla è facile schierarsi pro o contro. La realtà è diversa».

La morte dei genitori, sarà banale dirlo, è un momento di passaggio decisivo nella vita di ognuno di noi.

«Quando ero piccolo, essere orfano era la condizione che più mi spaventava. Dopo quarant'anni, ti tocca. Ed è il momento in cui diventi definitivamente vecchio».

Il suo protagonista, Marco Carrera, resiste a tutto il dolore che prova. Restando immobile. Come fa?

«Questo è il tempo della resilienza, una parola scempiata dalle banalizzazioni dopo l'uso che ne fece Obama. La resilienza è un concetto architettonico: più che resistenza indica la capacità di un materiale di restare come è fino alla fine».

Alla fine però Carrera prende una risoluzione. Sceglie come morire, con modalità sorprendenti.

«Credo sia un gesto di altruismo. Evita alle persone che ama di assistere al suo declino».

Lei ha sezionato le famiglie di oggi. Con tocco umano più che sociologico. I genitori di Carrera, in rotta per una vita, finiscono per scambiarsi i ruoli davanti alla morte.

«Sono due coniugi infelici che vivono in una strana simbiosi. Quando si ammala uno, si ammala anche l'altra, per non restare indietro, per così dire, e non dare un vantaggio al marito, che all'improvviso vuole fare tutto quello che lei gli ha chiesto inutilmente di fare negli anni precedenti».

Ma la famiglia è sempre fonte di infelicità?

«La famiglia più infelice di questo libro è quella dello iettatore, un personaggio così drammatico da rifiutare l'amore materno e rifiutare alla madre l'amore filiale. Per il bene della madre. Poi c'è la infelicità borghese dei Carrera. I Carrera rinunciano alla separazione, che in questo caso sarebbe stata salvifica, per i figli. Ma i figli assorbono comunque l'infelicità, anche se in modo diverso. Irene raccoglie tutto il dolore del mondo, fino a restarne sopraffatta. Marco e il fratello Giacomo rimuovono, fingono di non vedere. Ma la rimozione proprio nel momento in cui ci si apre alla vita non è una soluzione. Fino a quando si può fingere di credere alle menzogne?».

Fingono di non vedere. Ci sono pagine interessanti sulla responsabilità dello sguardo. Lei dice che lo sguardo è immischiarsi, un gesto attivo e non passivo. Siamo dunque responsabili di tutti i mali del mondo?

«Lo sguardo è un oggetto contundente. È un toccare, un alterare. Non è senza conseguenze. Noi fingiamo di accorgercene solo in alcuni momenti. Caso limite: Prince che licenzia il collaboratore dallo sguardo invadente. Altro caso limite, all'inverso: il benzinaio che ostentatamente non guarda il cliente che digita il numero del bancomat. Questo non significa che siamo responsabili di tutti i mali del mondo. Ma non voglio avvalorare la de-responsabilizzazione. Il tema è centrale, non a caso Marco Carrera è un oculista. Ma ci sono tanti altri tipi di sguardo, pensi agli animali che ci possono osservare con indifferenza o con paura o evitare i nostri occhi. Pensi ai figli, che chiedono di essere osservati. Se fanno una cosa, vogliono che i genitori li guardino e capiscono benissimo la differenza tra gli occhi di un padre e quelli di una tata. I figli vogliono la nostra attenzione, non il nostro amore: quest'ultimo lo danno per scontato. Sa qual è una cosa tra le più terribili alle quali ho assistito?».

Mi dica.

«Stavo scrivendo Occhio per occhio, un libro sulla pena di morte. Ero in California. L'esecuzione fu in una camera a gas, la prima dopo molto tempo in quello Stato americano. L'unico amico del condannato si era seduto in modo da poterlo vedere e accompagnare almeno con lo sguardo. Il boia, non appena se ne accorse, fece spostare l'amico, per privare il condannato anche di questo conforto».

Nel libro, lei ci presenta l'Uomo Nuovo, che poi è una donna. Lei crede nel progresso?

«Credo nel cambiamento, anche se non è detto sia sempre in meglio. Ma da certe conquiste non si torna indietro. Un tempo, i figli del fattore, che ne aveva sempre molti, erano usati come zampirone».

Zampirone?!?

«Li mettevano alla tavola dei padroni per attirare le zanzare. E il fattore non aveva niente da obiettare».

Quindi è una questione di progresso sociale.

«Anche. Ma non solo. Per Uomo Nuovo intendo chi si pone davanti ai problemi che ci tormentano e che non trovano soluzione e li risolve quasi senza pensarci, semplificandoli magari, ma andando oltre».

Esempio?

«Beh, pensi alla questione dell'ambiente. Perché si affermasse una sensibilità di massa sul tema ci volevano i ragazzini. Greta Thunberg, che piaccia o meno, rappresenta questo: il minorenne che scavalca gli adulti in efficacia, portandosi dietro milioni di bambini».

Come reagiscono gli adulti?

«Cedono al ricatto, per così dire. Non è un solone che ti dà una lezione insopportabile. È tuo figlio che va in giro con la bottiglietta di alluminio».

L'Uomo Nuovo porterà con sé la libertà. Ma io le chiedo di restare al presente. C'è la libertà di essere reazionari senza passare per fascisti, razzisti, xenofobi, islamofobi e così via?

«Il protagonista del Colibrì è un conservatore, anche in senso politico. Negli anni Settanta è ben distante dal movimentismo. Cerca di conservare ciò che ha valore. Non ho messo enfasi sulla questione politica perché non è quello il centro del libro».

Sì, ma lei cosa ne pensa? C'è questa libertà di dichiararsi contrari alla modernità o no?

«Essere conservatori o reazionari non è neppure una libertà. È un dato di fatto. Poi è vero che le posizioni, anzi: le reazioni, si sono radicalizzate. Credo per un preciso volere politico. Per estrarre consenso si avvelena il dibattito. Anche io mi sono avvelenato, con la questione delle navi dei migranti».

Ma l'immigrazione è proprio un problema sul quale dovremmo discutere civilmente.

«Certo. Discutiamo di come risolvere la situazione, con ricette reazionarie o progressiste, poi vedremo se erano giuste o sbagliate. Ma che bisogno c'è di usare un linguaggio triviale? Dire la crociera o roba del genere? Non lo accetto».

Un tema forte del libro, che emerge nel finale, è la contrapposizione tra verità e libertà. Cosa significa?

«La smania di essere liberi, fondata sul proprio mondo, frammentata in mille libertà, per la prima volta mette libertà contro verità. Uno rivendica la libertà di non vaccinare i figli perché è pericoloso. È vero il contrario ma la critica viene vissuta come un attentato alla libertà».

Perché?

«Perché noi assistiamo a un cambiamento

importante: il garante della libertà è l'errore, non la Costituzione. Io sono libero di sostenere che la Terra è piatta. E se voi mi date del cialtrone, siete illiberali e volete rendermi come tutti voi. Ma questa è libertà?».

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