Cultura e Spettacoli

"Lo sport ci ha cambiato. Per gli italiani è una messa pagana. Il tifo diventa una fede"

Lo storico ci racconta come la passione per calcio e ciclismo ha plasmato il Paese

"Lo sport ci ha cambiato. Per gli italiani è una messa pagana. Il tifo diventa una fede"

«Il tifo è forse l'emozione più rilevante dell'ultimo secolo e, quindi, va capita» dice lo storico Stefano Pivato. È per questo che, insieme al collega Daniele Marchesini, ha scritto Tifo, un saggio ricchissimo di dettagli e curiosità che racconta «La passione sportiva in Italia» (il Mulino, pagg. 268, euro 22). Pivato ne parla oggi a Fano, al Festival Passaggi (ore 9.30).

Professor Pivato, partiamo dalla citazione di Eduardo Galeano all'inizio del libro: la partita è una «messa pagana», e il tifoso un «fedele» fra migliaia?

«C'è una dimensione religiosa nel tifo. Non a caso, la parola viene dagli antichi riti dei greci dopo gli esercizi ginnici: il tifo erano i vapori e i fuochi fatti a fine gara. Lo sport è una nuova religione. Laica, ma lo è».

I suoi luoghi di culto?

«Lo stadio è il tempio. O le strade del Giro e del Tour, o i palazzetti del basket. E le figurine hanno sostituito i santini...»

Tifo significa anche «offuscamento dei sensi».

«Sì, perché i fumi provocavano offuscamento. Oggi come allora. E si noti che tifo è unico, come termine: la lingua italiana è particolare nel vocabolario dei fenomeni sportivi».

In che senso?

«Come l'Italia è una anomalia in molti campi, così non esiste, al mondo, un consumo di sport elevato come in Italia. E questo consumo spiega perché il tifo abbia una tale intensità».

E il vocabolario?

«Anche il linguaggio sportivo italiano è una anomalia. Si pensa che il termine calcio sia frutto di una italianizzazione iniziata col fascismo, invece risale all'inizio del Novecento. In Italia a palla si era sempre giocato con le mani, non con i piedi, e c'era molto dibattito fra i pedagogisti e gli educatori».

Il calcio coi piedi era un problema?

«C'era il timore che il football, di origine protestante, portasse il libero arbitrio: è uno sport di squadra, non è la ginnastica, uno sport singolo, praticato all'ordine di un solo comandante...»

E poi?

«Poi i ragazzi continuarono a giocare alla palla con i piedi e allora si diede l'illusione che il gioco risalisse a una tradizione italiana, il calcio fiorentino, e che fosse nato fra le truppe di Giulio Cesare, che l'avevano portato in Inghilterra e, da lì, fosse poi tornato indietro. Siamo l'unico Paese a non aver mantenuto la radice linguistica della patria d'origine del football».

Altre particolarità?

«La dimensione religiosa del tifo, con tutti gli esempi che si porta di divismo e di venerazione dei campioni, come i casi di imposizione dei loro nomi ai neonati, che iniziano già negli anni '30 con i Tazio, in onore di Nuvolari, proseguono dopo la guerra con gli Omar, per Sivori e culminano nei Diego, per Maradona. E poi nei grandi dolori collettivi».

Si piange per i campioni.

«Il primo sport veramente popolare in Italia è stato il ciclismo. Quando muore Coppi, nel 1960, la partecipazione è incredibile. Forse per i Papi, si passi il paragone profano, si vedono folle del genere a un funerale... E il sorpasso del calcio sul ciclismo avviene in un momento preciso, dopo la scomparsa del Grande Torino, nel '49: la tragedia di Superga è il primo grande dolore collettivo dalla fine della Seconda guerra mondiale. Studiando il tifo, capisci la società italiana attraverso un fenomeno che sembra marginale, ma non è così, e non solo per i numeri, ma perché investe il costume collettivo».

E che cosa ci dice della società?

«Per esempio che, di fronte alla crisi della politica e della socialità a essa legata, la gente si ritrova su forme diverse di partecipazione, quali sono, appunto, la socialità negli stadi, o per le strade del Giro. Anche la violenza del tifo, d'altra parte, si rifà a stilemi di tipo politico».

La violenza del tifo inizia negli anni '70, in parallelo a quella del terrorismo.

«Da strade e piazze, la violenza si trasforma in una contrapposizione di tifoserie, anche politicizzate. Questa politicizzazione però esisteva già, per esempio ai tempi di Coppi e Bartali: siccome Bartali era dichiaratamente cattolico, la gente doveva dividersi, secondo lo schema della Guerra fredda; e, quindi, i comunisti tifavano Coppi, anche se Coppi non è mai stato comunista».

La competitività dello sport, dice, si ritrova nella nostra società: la modella, anche, insieme al tifo?

«Certo, è una delle manifestazioni che più interpretano la realtà, e ha un antecedente nel futurismo, che intravede nello sport la grande metafora dell'educazione del futuro: viviamo nell'era della competitività e della velocità e che cosa, meglio dello sport, può esprimerla? Sa con quale giustificazione viene introdotto lo sport in Italia, a fine Ottocento?»

Racconti.

«Col fatto che lo sport sia nato nella nazione che ha inventato la Rivoluzione industriale e conquistato un Impero pari a un quarto del pianeta. Perché quei soldati e quegli ufficiali si erano formati nei collegi inglesi, dove l'educazione sportiva è considerata preminente, come oggi negli Usa».

Quindi copiamo?

«Quindi lo sport è considerato un operatore pedagogico: allena ai ritmi produttivi, sempre più veloci, della società industriale. O, oggi, a quelli dell'era informatica. E, se ci pensiamo, il calcio stesso esaspera questa tendenza: i numeri dieci scompaiono, perché tattica e velocità prevalgono sulla fantasia».

La violenza del tifo è inversamente proporzionale a quella in campo. Perché?

«Nell'antichità, nei giochi c'era la violenza, e la corrida è, forse, l'ultimo esempio di un gioco dove la violenza sia spinta alle sue estreme conseguenze, nell'arena. Dalla Rivoluzione francese in poi si assiste a una trasformazione della violenza, dal terreno di gioco, che sia la strada o lo stadio, agli spalti; poi, nel '900, questa evoluzione diventa palese».

E che cosa significa?

«Che dovremmo regolamentare, non la passione sportiva, ma il comportamento dei tifosi. Due anni di pandemia ci hanno disabituato ma, appena è tornato il pubblico sugli spalti, è tornata la violenza. È preoccupante».

La folla però è necessaria allo sport, come lo era alla tragedia greca?

«Certo. Si pensi all'inizio della pandemia e alle partite giocate senza pubblico: l'atmosfera era surreale. Lo sport è inconcepibile senza pubblico. La condanna non è per il tifo, che è passione, bensì per la violenza».

Lei chi tifa?

«Pantani. Mi commuovo ancora quando vedo i suoi filmati, o quelli di Coppi... Il tifo è un catalizzatore delle emozioni della gente comune: la storia dello sport, e del tifo, che è una delle sue manifestazioni più tipiche, è un segmento della storia delle emozioni del Novecento.

Emozioni di tutti i giorni, emozioni di ragazzi, donne, maschi, bambini, di tutti».

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