Cultura e Spettacoli

Stevenson racconta: "Disegnando una mappa ho scoperto l'idea dell'Isola del tesoro"

Poco prima di morire lo scrittore spiegò in un saggio la nascita del suo capolavoro

Stevenson racconta: "Disegnando una mappa ho scoperto l'idea dell'Isola del tesoro"

Pochi mesi prima di morire, nella sua Villa Vailima, sull'isola di Samoa, Robert Louis Stevenson pubblicò un articolo/saggio/memoir su Idler Magazine, in cui svelava come aveva scritto L'isola del tesoro, e che si intitolava My first book: Treasure Island, ma si sarebbe anche potuto intitolare «Il segreto del mio successo», oppure «Come nasce un classico»... My first book uscì nell'agosto del 1894; il 3 dicembre di quello stesso anno, Stevenson morì, a 44 anni, dopo essere stato tormentato per tutta la vita da problemi respiratori, che nella sua Scozia (era nato a Edimburgo nel 1850) non gli davano tregua, e ai quali aveva cercato di sfuggire prima in Francia, poi in Svizzera e, infine, nella remota Samoa. La rivista Idler, che durò per nove intensi anni (dal 1892 al 1911), grazie al fondatore Robert Barr, che aveva come braccio destro Jerome K. Jerome, era diventata una specie di salotto per scrittori; i quali, a volte, trasformavano le sue pagine in un confessionale, raccontando il loro «primo parto» (notoriamente il più difficile), cioè il loro primo libro, come fecero Henry Rider Haggard, Rudyard Kipling e, appunto, Stevenson. Il quale ottiene subito la simpatia del lettore perché non fa mistero della quantità di delusioni a cui è andato incontro, nei suoi tentativi di portare a termine un romanzo: ed ecco che appaiono «risme su risme» di carta acquistate e poi riempite di parole e, alla fine, un risultato che si riassume nell'ammissione che «mi è di consolazione ricordare che quelle risme sono ora cenere, e sono state riassorbite dalla terra». E questo per lungo tempo: «Rathillet iniziai a scriverlo prima dei quindici anni, Vendetta a ventinove, e la successiva serie di fallimenti durò ininterrottamente finché non arrivai ai trentuno».

A trentuno anni - siamo nel 1881 - nella vita di Robert Louis Stevenson, madre figlia di un pastore presbiteriano e padre ingegnere costruttore di fari, che avrebbe voluto un figlio ingegnere ma gli trasmise piuttosto la passione per i fari, il mare, i pirati e certe storie con «un suo genere di pittoresco», accade qualcosa che fa svoltare la sua carriera di scrittore; o meglio, che lo trasforma in uno scrittore vero, e non soltanto aspirante, come fino ad allora. E questo qualcosa è ciò che Stevenson racconta su Idler, brevi pagine che ora si possono leggere per la prima volta in italiano, in versione integrale, in L'Isola del tesoro. Il mio primo libro (Oligo, pagg. 52, euro 12, traduzione di Luca Crovi; in libreria dal 10 settembre), dove, oltre al testo, sono riprodotte le illustrazioni dell'epoca di Alexander Stuart Boyd, fra cui quella della celebre mappa dell'isola. Il fatto è che quell'anno Stevenson si ritrova, con il padre, la madre e la moglie Fanny Osbourne, nel «cottage della defunta signorina McGregor», immerso nella brughiera scozzese di Braemar, e con loro c'è anche «uno scolaretto» (il figliastro Lloyd Osbourne), appassionato di pittura; e così qualche volta, per rilassarsi, lo scrittore prova anche lui a realizzare «disegni colorati», fra i quali, guarda un po', «la mappa di un'isola», che nasce un pomeriggio ed è subito carica di presagi positivi: «era ben elaborata e (pensavo) magnificamente colorata; la sua forma scatenò la mia fantasia oltre ogni immaginazione; conteneva porti che mi soddisfacevano come sonetti; e con l'incoscienza del predestinato, battezzai la mia opera L'Isola del tesoro». Voilà. Il blocco dello scrittore era finito.

È grazie a quella mappa che il romanzo prende forma, ci germoglia sopra, diciamo: «Mentre mi soffermavo sulla mia mappa de L'Isola del tesoro, i futuri personaggi del mio libro iniziarono ad apparire proprio lì, in mezzo a boschi immaginari; le loro facce marroni e le loro armi scintillanti facevano capolino da accampamenti che non avevo previsto, mentre passavano avanti e indietro, combattendo e andando a caccia del tesoro, e tutto in quei pochi centimetri quadrati di quella proiezione piana». All'improvviso, per Stevenson spira quel «vento favorevole» che tanto serve al «principiante» in letteratura, poiché «Chiunque può scrivere un racconto breve - uno brutto, intendo - non tutti però possono sperare di scrivere un romanzo, anche se brutto. È la lunghezza che uccide». Nulla lo ferma più: Stevenson scrive quindici capitoli in quindici giorni; si interrompe, entra in crisi (breve), si trasferisce a Davos e ricomincia, sempre al ritmo di un capitolo al giorno, e tra la fine dell'anno e l'inizio del 1882 riesce a pubblicare il suo primo romanzo, a puntate, sulla rivista Young Folks. Il titolo originale, Il cuoco di bordo, viene bocciato a favore di L'isola del tesoro; il libro esce nel 1883 per Cassel & Co, ma in mezzo c'è spazio per un'altra avventura: spedendo il manoscritto, la mappa originale si perde, e Stevenson deve ricostruirla, lavorando al contrario, con l'aiuto del padre e con grandi difficoltà, visto che «la mappa era la maggior parte della trama. Potrei dire che lo era per intero», oltre che, più in generale, «una miniera di suggerimenti» per ogni scrittore. Poi, certi suggerimenti possono anche arrivare «dall'esterno»... ovvero da altri scrittori e altri romanzi, come lo stesso Stevenson ammette, nel «capitolo doloroso» dei suoi debiti: Robinson Crusoe per il pappagallo, Poe per lo scheletro e, soprattutto, Washington Irving per «Billy Bones, il suo baule, la compagnia nella sala della locanda...», ma che dire a propria discolpa? «Io non ne avevo la minima idea mentre scrivevo. Mi sembrava originale come il peccato».

E si sa, siamo tutti peccatori.

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