È una mattina spoglia, quasi senza traffico, con una luce da primavera fredda, rarefatta, e Vladimir Sorokin si muove con passo lento per le strade di Roma, verso il Flaminio, non lontano dal villaggio olimpico degli anni '60. «Qui - dice - anche il passato non troppo lontano ha un sapore di eternità». Sbaglia chi pensa che sia semplicemente un luogo comune. Sorokin ha la sensibilità di certi maghi e nei suoi romanzi sperimenta l'arte di giocare con il tempo. Sospenderlo. Fermarlo. Camminare lungo le linee. Avanti. Indietro. Divergerlo. Fino al punto di confondere passato, presente e futuro e perdersi, naufragando. Questo ogni tanto può capitare a chi sente l'invisibile e per uno scrittore russo sempre in cerca della bellezza perduta non è una suggestione poi così improbabile. Che distanza c'è tra La coda e La tormenta? «Il calendario dice che ci sono più di vent'anni e in mezzo c'è un cambio di secolo. Eppure non è così. C'è un tempo metafisico dove i giorni, i mesi e gli anni non sono lineari, ma si incrociano e si ritrovano. Allora la realtà è un'altra. In Russia la coda e la tormenta sono continue. La distanza si annulla e tutto torna. Sono invecchiato io, ma tra l'una e l'altra storia non è passato neppure un giorno».
La coda (Guanda) è il romanzo d'esordio di Sorokin. Sono anni sottovento, di letture clandestine, samizdat e ciclostile, con l'idea di vivere come un personaggio di Puskin, sfidando i tempi e la censura sovietica. Un manoscritto inviato a Parigi come punto di svolta, con la patente di dissidente. «Mi nutrivo di mercato nero. Ascoltavo la stessa musica di voi ragazzi occidentali, ma con il brivido dell'illegalità. I Pink Floyd, il rock metallaro e il punk per me erano una bandiera di libertà probabilmente più reale rispetto a voi». C'è un indovinello che girava nell'Unione Sovietica degli anni '70. Qual è quell'animale lungo almeno cento metri, che ha mille piedi e si nutre di cavoli? La coda, appunto. Il simbolo di un'utopia andata a male dove ciò che serviva non era mai disponibile al momento giusto e in quantità sufficiente. Studenti, operai, madri con bambino, anziani e ragazze: tutti in fila, gli uni accanto agli altri, spesso all'oscuro della merce che sarebbe stata venduta. La coda è la registrazione in presa diretta di voci, dialoghi, frammenti di conversazione, speranze, sogni, paure, di gente in attesa. Non c'è un narratore. È la folla, la massa, che si racconta. «La coda è ancora lì. Solo che non è più umana. L'uomo ora ha trovato la propria coscienza nella macchina. La macchina è l'io. A Mosca ora ci sono code enormi di auto, molto costose è molto sporche. Se prima la gente stava in piedi per comprarsi carne, stivali e merce fabbricata per un'umanità senza sogni, adesso sta in coda per entrare nella città, per trovare un posto nello spazio. Ma nella loro auto ascoltano tutti la stessa radio che lancia gli stessi slogan: la Crimea è nostra, la Russia è il nuovo impero, Putin è il grande padre. È questa, dopo gli zar e i soviet, la nuova metafisica del popolo russo. La successione degli accordi è diversa, ma la melodia in fondo è sempre la stessa».
La tormenta (Bompiani, pagg. 198, euro 17, traduzione di Denise Silvestri) è l'ultimo romanzo di Sorokin. È un viaggio nello spazio-tempo della sconfinata dimensione russa. Platon Il'ic Garin è un medico di campagna che sta cercando disperatamente di raggiungere la remota località di Dolgoe per soccorrere i suoi abitanti, decimati da una spaventosa epidemia. Garin è un intellettuale, un uomo di scienza e con lui, a guidarlo, c'è il vetturino Raspino, con una tendenza patologica a smarrirsi. I due si muovono su una slitta archeofuturista trainata da cinquanta minuscoli cavallini, «non più grandi di una pernice». È un viaggio senza approdo, perché la rotta è segnata da incontri che incarnano paure e contraddizioni della grande anima russa, come la mugnaia che tiene prigioniero per una notte d'amore il dottore come una nuova Circe. E poi c'è la tormenta, che annulla le coordinate topografiche e temporali, che cancella e disperde, fino a rendere l'orizzonte «un selvaggio, ostile, ululante spazio bianco». La tormenta ti porta in un «retrofuturo», un futuro anteriore che sta davanti a noi, negli anni che verranno, ma che assomiglia al sogno tecnologico della Belle Époque, una sorta di steampunk che lascia le certe dimensioni del romanzo di genere per approdare nel racconto letterario. La tormenta è romanzo filosofico e metafora politica e sociale, ma va letto come feuilleton d'avventura. «La Russia è un Paese enorme, di dimensione disumana. Questo spazio sconfinato si presta bene per chi vuole sentirsi orgoglioso della propria grandezza, ma vivere in questo territorio selvaggio è molto molto difficile. È un mondo dove le idee si perdono. Come ha detto un poeta per arrivare da un pensiero ad un altro pensiero bisogna stare su un cavallo per lunghe lunghe miglia. La tormenta parla di idee e di uomini che cercano disperatamente di non perdersi, di trovare una strada, di non rassegnarsi a inseguire un futuro che non arriva». Raspino e Garin incarnano il fallimento del buon senso popolare e dell'intelligencija. Le anime morte di Nikolaj Gogol' segnano ancora il destino dei russi. Ogni volta che c'è da scegliere la libertà si risveglia la paura. La libertà è un fardello troppo pesante da portare e allora ci si affida al potere centrale che sceglie per te. «Ti ricordi Guerre Stellari? Il maestro Yoda mette in guardia gli jedi dal sentimento della paura. La paura ti fa cadere nella parte oscura. La paura genera odio, alza muri, ma si presenta sempre con una maschera orribile ma in qualche modo rassicurante.
La paura fa promesse che non può mantenere, ma che ti fanno sentire tranquillo. Fidarsi per assecondare la paura è più facile che mettersi in gioco ogni giorno. È sempre così che muore una democrazia, tra applausi scroscianti».
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