Un autorevole critico musicale italiano, zelante voce della cultura dominante (di sinistra, ça va sans dire) deplorava ad uno dei maggiori compositori sovietici, Rodion cedrin, che il Teatro Bol'oj in visita nel nostro paese non avesse portato il Boris di Musorgskij. Ovviamente il critico avrebbe voluto sentire il Boris nella versione originale, non in quella rivista da Rimskij-Korsakov, considerato dai nostri storici musicali non il lungimirante vivificatore di un capolavoro ma il pedante censore di un genio rivoluzionario. cedrin tagliò corto: «il Boris originale si può fare una volta sola nella vita, come il morbillo». E poi giù un altro colpo: «l'opera nazionale russa non è il Boris, come dice lei, ma Evgenij Onegin».
Oggi entrambe le opere corrono nel mondo. Difficile immaginare come al tempo del dialogo (gli anni '70 del secolo scorso), quella di cedrin suonasse come un'eresia. Allestire uno dei capolavori di Cjaikovskij come accade in questo periodo al Teatro San Carlo di Napoli e al Comunale di Bologna, o vedere in dvd una regia superba come quella di Deborah Warner al Met sarebbe stato considerato nell'Italia del compromesso storico una bieca operazione di retroguardia, o peggio. Non ci si accorgeva nemmeno che i compagni sovietici avevano opinioni diverse. Si dimenticava che i due più grandi geni musicali russi del Ventesimo secolo, Stravinskij e Prokof'ev, erano ammiratori e seguaci dell'Onegin e del suo Autore. Per decenni fra le due guerre il nome di Cjakovskij faceva arricciare il naso a quasi tutti i professionisti della composizione, cui sfuggiva come quell'eleganza suprema che mescolava Oriente ed Occidente, fosse patrimonio profondo della cultura musicale russa. Stravinskij additò con fierezza i suoi venerati precursori: Pietro il Grande, Pukin, Glinka e Cjaikovskij.
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