Cultura e Spettacoli

Le tristi passeggiate romane di Trevi

Lui lo definisce «un apprendistato». È un libro non brutto, ma noiosissimo

Le tristi passeggiate romane di Trevi

Non ho mai capito perché i critici a un certo punto si mettano a scrivere romanzi, non ce n'è uno che abbia mai prodotto qualcosa di significativo per la letteratura, solo la dimostrazione che avrebbe dovuto continuare a fare il critico e basta.

Uno di questi è Emanuele Trevi, sicuramente coltissimo, che si è candidato più di una volta al Premio Strega (e già questo la dice lunga sugli obiettivi), e che adesso, dopo qualche tentativo narrativo, esce con «un libro strano», come lo definisce il risvolto di copertina, titolo Sogni e favole: un apprendistato (Ponte alle Grazie, pagg. 224, euro 16), cioè mezzo saggio mezzo romanzo mezzo boh. Già i sogni e le favole mi avevano messo sul chi va là, ma l'apprendistato ancora di più: apprendistato di chi, di Trevi?

In realtà non è neppure un libro brutto, perché Trevi è una persona intelligente, solo che è un precipizio di noia, benché di sicuro effetto soporifero, meglio del Valium. È tutta una tristissima passeggiata romana, partendo dagli anni Ottanta dove il giovane Trevi lavorava in un cineclub tristissimo, con tristissime riflessioni su Stalker di Andrej Tarkovkskij, che già è un film da suicidio, e tristissimi incontri con l'amico fotografo Arthur Nathalien Patten, e tristissime meditazioni su Metastasio, e tristissimi approcci con Cesare Garboli, venerato neppure fosse Marcel Proust, come sempre i critici venerano altri critici.

È tutta qui la differenza tra il critico letterato e lo scrittore. Se fosse stato un libro di Thomas Bernhard sarebbe stato un capolavoro, ma l'autobiografia regge solo se diventa letteratura, altrimenti resta solo «un libro strano», e a parte me che mi sono impuntato a finirlo non so chi altri possa arrivare alla fine. In ogni caso, siccome l'ho finito, vi dico che delle informazioni interessanti ci sono. La migliore riguarda Amelia Rosselli, altra veneratissima dal giovane Trevi, la quale gli dice: «La cosa più importante sarebbe quella di ricordare le vite precedenti a quella che stiamo vivendo», e gli regala un libro di Pitagora sulla reincarnazione.

Non so se sia valsa la pena leggermelo tutto, questo apprendistato di Trevi, ma almeno ho trovato l'ennesima prova di quello che ho sempre pensato: che i poeti sono tutti dei rimbecilliti.

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