Cultura e Spettacoli

Tutti i conflitti di oggi sono figli dei popoli senza una vera nazione

Dalla Bosnia all'Africa, David Armitage spiega le tensioni sotterranee che portano allo scontro

Tutti i conflitti di oggi sono figli dei popoli senza una vera nazione

La guerra, anzi «l'opzione militare» come si dice oggi perché la parola guerra dà fastidio, si fa più forse più probabile, e non in un posto solo. Tornano d'attualità i conflitti (che c'erano anche prima, solo che non se ne doveva parlare), ma non sono molti invece gli studi sulla guerra, colpiti dall'interdetto lanciato dal politically correct su chi ne parla. Ormai lontane le riflessioni di ampio respiro di Samuel Huntington, che da Harvard previde con precisione lo scontro di civiltà, di culture e di religioni (in particolare fra Islam e Occidente) come principale motivazione dei conflitti post Guerra fredda. Quasi dimenticate poi le due grandi visioni che avevano interpretato il fenomeno bellico nel secolo scorso: quella economico-politica di Raymond Aron, e quella socio-antropologica di Gaston Bouthoul, fondatore della polemologia. Il quale ribaltò le varie interpretazioni di ispirazione marxista dimostrando come la gran parte dei conflitti non siano il risultato della povertà e della fame, bensì dell'eccedenza di energie e risorse culturali, identitarie e economiche che non trovando sbocco nei consueti circuiti di pace, suscitano e si investono nei conflitti.

Oggi invece è come se lo studio della guerra si fosse per così dire impigliato nelle parole e nei codici linguistici ammessi dal modello culturale dominante, diventando così una guerra di parole. È quello che ammette molto correttamente, David Armitage, professore di storia all'Università di Harvard, autore del recentissimo Guerre civili. Una storia attraverso le idee (Donzelli editore), intitolando la conclusione del libro: Guerre civili di parole. Tutto perché la guerra viene sempre vista e interpretata secondo le categorie della politica: «Il problema della denominazione diventa particolarmente acuto quando abbiamo a che fare con le idee politiche. Formuliamo queste categorie per convincere i nostri amici e contrastare i nostri nemici», ammette francamente Armitage. Il paradosso è che poi oggi (come spesso in passato), la guerra non è più politica, ma appunto culturale, religiosa, etnica, come già sosteneva Huntington, in polemica con l'immaginaria Fine della storia di Francis Fukujama, convinto invece che storia e guerra sarebbero terminate contemporaneamente, con la fine della Guerra fredda.

Lo stesso Armitage riconosce fin dall'inizio del libro che «siamo di fronte al più straordinario cambiamento nei conflitti umani avvenuto nell'arco di secoli». Fino alla fine dell'ultima guerra mondiale le guerre venivano fatte tra Stati, adesso la maggior parte avvengono all'interno di essi. Di qui la denominazione di «civili», originaria dal diritto romano, per indicare le guerre tra cittadini. Queste guerre, inoltre, civili di solito non sono affatto perché tendono a lasciare ferite non rimarginabili. Dopo la guerra civile, osservava De Gaulle, anche quando finisce il conflitto non nasce la pace. Le guerre fratricide, scrisse il giurista internazionale Carl Schmitt, creano ferite particolarmente lente a rimarginarsi.

Però solo una parte assai modesta di queste nuove guerre sono veramente guerre tra fratelli. Nelle classificazioni attuali appare così perché appunto sono redatte da organismi internazionali o accademici che riflettono le visioni politiche di chi li ispira e finanzia: Organizzazioni Internazionali, Università, Fondazioni. Come osserva Armitage: «descrivere un conflitto come guerra civile ha un peso simbolico e politico, in quanto il termine può conferire o negare una legittimità». In questo modo si riesce a porre sotto la categoria della guerra civile la maggior parte dei conflitti che si sono sviluppati appunto dal 1945 in poi. Che però sono combattuti da gruppi che non si sentono affatto fratelli, e sono dovute per la maggior parte al decomporsi della carta geografica del mondo per il processo di decolonizzazione avviato appunto del 1948 in poi.

Per richiesta soprattutto degli Stati Uniti, le Organizzazioni Internazionali e Stati ex coloniali hanno lasciato che Stati abbastanza immaginari creati a tavolino durante la colonizzazione si dissolvessero sotto spinte etniche, o religiose, sempre con forti componenti culturali/nazionali. Non nel senso europeo dello Stato nazione ottocentesco, ma in quello della nazione organica, unione di territorio, popolazione, e appunto cultura materiale, linguistica e in molti casi religiosa. Stiamo infatti assistendo in tutto il mondo, con molti conflitti e troppi morti, alla ricostituzione delle unità politiche di base (appunto le nazioni organiche), presenti anche in Europa fino alla fine degli Imperi, a volte riunite in unità sovranazionali di tipo confederale.

Naturalmente in queste guerre hanno giocato anche interessi delle potenze (prima l'Urss, poi la Cina, a volte importanti multinazionali Usa) interessate a sviluppare legami politici o d'affari con i territori in questione. La base su cui però queste penetrazioni si appoggiano è la rete sottostante dei clan, tribù, popoli e credenze che formavano già le precedenti nazioni organiche. Sopravvissute in molti casi a colonizzazione prima e decolonizzazione poi, proprio perché non fondate su sovrastrutture politiche o economiche ma su basi di condivisione più profonde. Anche le guerre avvenute in Europa, come quelle della ex Jugoslavia sono riconducibili allo stesso fenomeno, che lì ha posto fine allo Stato Nazione voluto da Stalin e Tito e consentito (con la tradizionale protezione del mondo tedesco) il ricostituirsi accanto alla Serbia delle antiche nazioni della Croazia, Slovenia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia con la novità ora rappresentata dall'inquieta vitalità delle componenti islamiche.

Anche in Europa, le attuali tensioni in Spagna, Belgio, potenzialmente Italia, sono dello stesso tipo. L'attuale centralizzazione dello Stato nazione ottocentesco, con la sua impostazione giuridica e relativa lontananza dalle diverse popolazioni al suo interno, non è ritenuta adeguata agli interessi e vocazioni dei vari territori, che premono almeno per Stati confederali. In tutto il mondo poi, spinte molto simili chiedono che l'Onu, attualmente la grande fabbrica delle «parole permesse o vietate», riconsideri tra i suoi possibili interlocutori oltre agli Stati, che sono già suoi membri riconosciuti, popoli e comunità che oggi non lo sono ma che attraverso referendum democratici chiedono di essere riconosciuti come tali (come farà tra breve la Catalogna, poi il Veneto e altri). Finora questo non è stato possibile perché si opponevano gli Stati cui apparteneva la nazione organica che lo chiedeva. Ciò però ha appunto creato il moltiplicarsi dei nuovi conflitti, con guerre e morti, esportando poi i disordini locali nel resto del mondo sotto forma di migrazioni. L'Onu dovrà forse scegliere nei prossimi anni se essere la protettrice della pace, come da Statuto, o dei propri membri, spesso non più in grado nell'attuale versione centralizzata di garantirla al proprio interno. Le guerre civili di parole non hanno funzionato.

Anche se «popoli» è una parola proibita, forse è meglio ascoltarli di più.

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