Ai tempi della guerra di Spagna del 1936, W.H. Auden si meritò le severe quanto sarcastiche rampogne di George Orwell per via di un verso infelice della sua poesia Spain: «The conscious acceptance of guilt in the necessary murder» aveva scritto, la consapevole accettazione della colpa a fronte del delitto necessario Una frase del genere, replicò Orwell, «può averla scritta solo una persona per la quale l'assassinio è al massimo una parola. Personalmente, io non parlerei così alla leggera del delitto (): il tipo di amoralità di Auden è possibile soltanto se siete il genere d'uomo che si trova sempre in un altro posto nel momento in cui si preme il grilletto».
Auden in Spagna c'era stato il tempo di un brindisi e di un discorso antifranchista, per poi tornarsene soddisfatto a Londra, mentre Orwell non solo aveva rischiato di rimanerci secco, una pallottola nella gola, ma se n'era dovuto scappare per non essere fatto fuori dai comunisti, che in teoria erano suoi alleati. Sapeva insomma che cosa significava entrare in contatto con la morte, e la sua asprezza nei confronti di chi si era limitato a sperimentarla sulla carta, aveva a che fare con il fastidio che il professionista della realtà prova nei confronti del dilettante delle sensazioni.
Il «delitto necessario» e «la consapevole accettazione della colpa» di Auden mi sono tornati alla mente leggendo Tomàs Nevinson di Javier Marìas (Einaudi, pagg. 590, euro 22; trad. Maria Nicola), il più inglese degli scrittori spagnoli, per la conoscenza approfondita e l'amore che ha per la cultura e la lingua d'oltre Manica. Romanzo potente, spy story più psicologica che d'azione, Tomàs Nevinson racconta il dilemma del suo omonimo protagonista, chiamato a decidere se eliminare o meno un supposto terrorista dell'Eta, meglio, dell'Ira prestato all'Eta, una sorta di commesso del terrore dall'Irlanda ai Paesi Baschi. Particolare non secondario per Nevinson, un quarantenne nel momento in cui si svolgono i fatti, gli anni Novanta del secolo scorso, il sospettato è una donna e nei confronti del genere femminile c'è in lui quella forma di rispetto e di attenzione tipica di una certa educazione maschile, non importa se ipocrita o se magari contraddetta dalla realtà: «Le donne non si toccano nemmeno con un fiore, non si arreca loro danno fisico e quello verbale va evitato il più possibile, sebbene loro non ricambino quest'ultima attenzione».
Danni non fisici, ma sentimentali, a una donna, anzi a due, Tomàs ne ha già comunque inflitti, anche se questi possono fare parte della quotidianità della vita. È stato un agente segreto, più volgarmente, una spia, per conto del governo inglese, la sua patria d'elezione rispetto a quella spagnola di nascita, ha dovuto fingersi morto per la donna che aveva sposato, è rimasto a lungo nascosto sotto un falso nome e una nuova identità sociale, al punto di sposarne un'altra e farci una figlia, è ricomparso dalla prima dopo anni di silenzio e solo una volta che l'M15 britannico ha accettato che si riprendesse la sua vita e se ne andasse, come un borghese qualunque, in pensione.
Nevinson è però uno «assediato dal passato», nonché dal fatto che invecchiando «il futuro cessa di essere vasto e astratto, un mucchio di pagine bianche, per farsi sempre più concreto e limitato, o più delineato, o più scritto, trasformandosi in passato e in presente, un po' più ogni giorno che passa». Questa consapevolezza del passato è tanto più acuta perché le giovani generazioni con cui ha a che fare conoscono solo la contemporaneità, «come se nulla di quanto era avvenuto prima potesse essere utile o le riguardasse». È anche per questo che ha accettato di tornare in servizio, un servizio che era durato venti lunghi anni, quelli della sua giovinezza e della sua maturità, quelli in cui in fondo ha creduto di difendere una causa, il Bene contro il Male, per dirla banalmente, anni in cui si è sentito vivo e utile, nonostante tutto e tutti. Perché poi, particolare non secondario, Nevinson è stato arruolato con l'inganno, gli si è fatto credere che così si sarebbe tirato fuori da una situazione pericolosa, implicato suo malgrado nella morte di un'altra donna, che in realtà non è mai avvenuta E questo inganno Nevinson non l'ha mai dimenticato né perdonato.
Per quanto fedele a un mondo ideale e di idealità riconosciute, la civiltà occidentale, la democrazia, la giustizia, Nevinson non è dunque un semplice esecutore di ordini, né uno che chiude gli occhi di fronte alle responsabilità, le proprie, quelle di chi è sopra di lui. È per certi versi d'accordo con quanto i vertici dell'Intelligence, di cui non ha mai smesso di fare parte, sono soliti dire: «Nella lotta al terrorismo ci sono cose che non si devono fare. Se si fanno non si devono dire. E se si dicono, si devono negare». Gli è stato anche insegnato che in quanto difensori dell'ordine costituito non devono provare odio: «È un sentimento che ci è sconosciuto. La crudeltà è contagiosa. L'odio è contagioso. La fede è contagiosa. La stupidità è contagiosa. Noi dobbiamo badare a non infettarci».
Sullo sfondo di episodi reali del terrorismo europeo, il romanzo Tomàs Nevinson è insomma una profonda riflessione sui limiti di ciò che è lecito fare, sulla macchia che quasi sempre accompagna la volontà di evitare il male peggiore, e soprattutto sulla difficoltà di determinare quale sarà quel male Ciò che infatti al suo protagonista viene chiesto, non è tanto o solo identificare un terrorista, quanto eliminarlo, pur senza la certezza che lo sia C'è sì un'altissima probabilità, ma non è la stessa cosa. «Uccidere non è un gesto così estremo se si ha piena nozione di chi si sta uccidendo», certo, ma se questa «piena nozione» non c'è, fino a dove è giusto arrivare? E se poi si dovesse scoprire che era proprio quello il nemico così a lungo cercato e che lasciato in vita, per degli scrupoli rivelatisi infondati, ha di nuovo ucciso?
«Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella», recitano i Salmi. Ma nell'epoca della secolarizzazione, il Signore ha smesso da tempo di vegliare e la sentinella, pensa Nevinson, la impersona gente come lui, «angeli sgradevoli» da cui tutti, più o meno ipocritamente, prendono le distanze. «La maggior parte dei cittadini non ha niente da dire se vengono eliminati per le vie più rapide gli autori degli attentati, oggi in maggioranza jihadisti. Si guardano dal dirlo, però e se trapela quanto è accaduto, senza arresti, né interrogatori, né processo, si stracciano le vesti, e accusano i servizi segreti di essere una banda di assassini. Tutti adorano sentirsi moralmente corretti garantisti, difensori dei diritti di qualunque carogna».
Javier Marìas orchestra le sue riflessioni con uno stile solido in cui c'è un'eco shakespeariana, nonché un omaggio a poeti amati come Yeats e Eliot. Ma forse la chiave, suggerisce, è nel più popolare e meno tormentato Dumas di I tre moschettieri, nelle parole con cui Athos sbrigativamente, ma lucidamente riassume a un d'Artagnan attonito come si liberò di Milady, da lui sposata pensando fosse un angelo e rivelatasi invece un demonio: «Un assassinio, nient'altro che un assassinio».
Dopo averlo compiuto però il conte de la Fère, è questo il suo vero nome, ha voltato le spalle alla sua storia e alla sua classe e si è autoesiliato nel corpo dei moschettieri. Per tornare nel consesso civile occorrerà che Milady, sopravvissuta in realtà a quell'assassinio per impiccagione, riappaia sulla scena. E questa volta Athos affiderà l'esecuzione della sentenza al boia di Béthune
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