Ugo Tognazzi, il cinema fra innocenza e indecenza

Trent'anni fa moriva il grande attore che passava dalle tenere macchiette alle maschere ciniche

Ugo Tognazzi, il cinema fra innocenza e indecenza

Il suo più grande rimpianto è stato quello di non aver girato il fantasmatico Viaggio di G. Mastorna che Fellini gli promise: «Per me era una tappa importante, coronava mille sogni, compreso quello di annunciare a mio padre: giro un film con Fellini. E magari di pavoneggiarmi a Cremona, mio paese natale. Perché poi in fondo, a ben pensarci, era tutto lì». Ecco Ugo Tognazzi in un'intervista per Panorama nel 1985, quindi 5 anni prima di morire, il 27 ottobre del 1990, per un ictus.

Trent'anni dopo la sua Milano, dove si trasferì nel 1945 a 23 anni, esordendo a una serata del debuttante al Puccini, lo omaggia con un ciclo di film, da domani al 31 ottobre presso la Cineteca Milano MIC, che ripercorre la parabola del grande mattatore, capace di passare dalle macchiette e dalle caricature fulminanti a ruoli difficili, ambigui, addirittura respingenti per il pubblico. Il massimo interprete dunque, come ha scritto Roberto Buffagni nel volume Mondadori La supercazzola, «di due qualità italiane apparentemente contraddittorie: l'innocenza e l'indecenza». Chi altri, se non lui, avrebbe potuto sostenere il micidiale episodio Scenda l'oblio de I mostri di Dino Risi (1963) che, in meno di due minuti, fa fuori sia una certa retorica della Resistenza, sia la ricca borghesia del coevo boom. Ricorderete, Tognazzi è al cinema con la moglie impellicciata, sullo schermo una fucilazione da parte dei nazisti. Tognazzi sembra seguire con partecipato interesse, salvo dire alla moglie: «Ecco vedi il muretto della nostra villa lo farei proprio come quello, semplice, solo con le tegoline sopra, Eh?». Ecco la commedia all'italiana che castigat ridendo mores.

Ecco dunque Ugo Tognazzi, il cui primo nome in realtà era Ottavio, che nasce il 23 marzo del 1922 a Cremona ma a 14 anni, per via d'una malattia del padre assicuratore, è costretto a trovare lavoro nel grande salumificio di Cremona, Negroni, mentre la sera recita nella filodrammatica del dopolavoro ferroviario. Forte di questa esperienza, sfonda a Milano nel 1945 e dieci anni dopo è uno dei personaggi più famosi d'Italia grazie al programma Rai, dai tempi comici perfetti come le musiche di Lelio Luttazzi, Un due tre, con Raimondo Vianello. Il cinema lo spolpa, letteralmente. Dal 1950 al 1963 recita in una cinquantina di film, 27 con Vianello, dai bassi costi e dagli incassi alti. Ma il suo spirito inquieto, refrattario alla routine artistica, lo porta a mettersi in discussione tanto che nel 1961 si dirige in Il mantenuto, ribaltando la morale borghese (nella rassegna troviamo un'altra sua peculiare regia, Il fischio al naso, da Buzzati).

Grazie agli sceneggiatori Castellano&Pipolo e al regista Luciano Salce inanella tre formidabili borghesi piccoli piccoli, Primo Arcovazzi, il gerarchetto di Il federale del 1961 (in programma venerdì 30), l'anno dopo l'ing. Antonio Berlinghieri, un industriale quarantenne che fa il giovane in La voglia matta, per finire nel 1963 con Le ore dell'amore, commedia acidula sul matrimonio come tomba dell'amore, con Tognazzi perfetto fra dramma e farsa. Due caratteristiche che lo porteranno a interpretare nobili e prelati, operai e bottegai, tutti ipocriti, mentre invece nel sodalizio con Marco Ferreri, nei corrosivi film scritti da Rafael Azcona, Una storia moderna - L'ape regina (1963, da Parise), La donna scimmia (1964), Marcia nuziale (1966), La grande abbuffata (1973) e Non toccare la donna bianca (1974), sul banco degli imputati c'è il maschio contemporaneo, già ripugnante prima del #metoo (e si muoveranno la magistratura e la censura). Mercoledì 27 in programma c'è La tragedia di un uomo ridicolo di Bertolucci che gli valse la miglior interpretazione maschile al Festival di Cannes del 1981, ma non il successo di pubblico.

Tognazzi, «col suo collo corto e il suo rotondo testone padano», Bertolucci dixit, ha solo 59 anni. Pochi anni prima è stato protagonista dell'epocale Amici miei e de Il vizietto, ma ciononostante il cinema si dimentica di lui (non Pupi Avati che lo vuole nel calcistico Ultimo minuto del 1987). Tognazzi certo si consola con il personaggio di gourmet ante litteram che si era costruito, con i tornei di tennis al Villaggio Tognazzi sul litorale laziale, con il villone di Velletri, con i figli di primo (Ricky), secondo (Thomas) e terzo letto (Gianmarco e Maria Sole), ma nelle ultime interviste confida malinconico: «Mi seccherebbe morire.

Lascerei le cose a metà, propositi, idee, anche se io non sono uno di quelli che nascondono un progetto nel cassetto per tutta la vita».

«Ciao Ugo, ci vediamo dopo», come scrisse un anonimo macchinista sul registro della sua camera ardente, e grazie!

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